domenica 29 settembre 2013

IL NUBIFRAGIO

Tratto da: Una nuova vita di Milos Fabbri
 
IL NUBIFRAGIO


La goccia che lo fece traboccare fu l'alluvione, Genova fu invasa dall'acqua proprio mentre lui si stava accomodando a tavola, la moglie era già seduta da circa cinque anni, non poteva più camminare in seguito ad un incidente; era stata investita da un auto che nemmeno si fermò per soccorrerla, e questo le costò la paralisi. Aveva anche una serie di altri problemi più lievi, ma di sicuro l'animo era quello che più del corpo aveva perso vitalità.
Santo Guglielmino era ottantenne e proprio tre giorni addietro c'era stata la ricorrenza dei sessantasei anni di matrimonio con Giuseppa Lo Bianco che ne aveva due in meno del marito ed era originaria di Catania.
Guardavano entrambi fuori dalla finestra, pioveva, pioveva che Dio la mandava, ed entrambi pensavano la stessa cosa, si scambiavano ben poche parole ma si capivano, avevano trascorso la vita insieme, si conoscevano dall'età dell'adolescenza; da quando in seguito, Guglielmino la passava a prendere al mulino in lambretta e lei ci saliva compiaciuta sedendosi con entrambe le gambe sul lato destro, così, tanto per non far ancora alzare la gonna.
Pensavano al torrente Fereggiano che scorreva poco lontano dalla loro abitazione, al loro quartiere Marassi che nulla avrebbe potuto fare a quell'inondazione.
Posò tre polpette sul piatto della moglie, poi ne accomodò altrettante sul suo ed infine ripassò con il sugo. Si versò mezzo bicchiere di vino rosso e lo allungò con l'acqua. La moglie ora lo guardava, era stanca, stanca di una vita che non le aveva offerto altro che sofferenza; sesta di nove figli, non aveva potuto studiare e nemmeno giocare, a quell'età, quando gli altri bambini giocavano e andavano a scuola, lei faceva pascolare le pecore. Giuseppa di sogni ne aveva tanti come tutte le bambine di sei anni ma non li avrebbe mai visti realizzati. Nemmeno quando incontrò quell'uomo che la prese e la portò via dalla campagna, sposandola; anche allora la sua vita rimase misera.

Lui ricambiò lo sguardo e capì quello che la moglie gli stava trasmettendo, ma non poteva, non ne aveva la forza, il coraggio; e poi pensò a sua figlia ormai adulta, che aveva deciso di vivere nella grande Milano e li aveva lasciati lì, soli, con la loro vecchiaia, la loro solitudine. Lei aveva fatto una scelta, aveva sposato un uomo benestante, un borghese e si era lasciata alle spalle i suoi sogni, in cambio di una vita modesta, di un'alternativa alla miseria dei genitori.
Ormai erano due famiglie distinte, lontane; ognuna pensava per sè senza essere dipendente dall'altra, proprio come il padre le aveva insegnato: l'indipendenza. Ma ora, Guglielmino avrebbe voluto un po' di riconoscenza, ora che era vecchio forse, si accorgeva che la famiglia serviva in questo momento, in questi anni così difficili.
Il fiume straripò che erano le dodici e diciassette minuti, allagò tutto il quartiere, quattro metri d'acqua invasero le strade, le case; spazzò via auto e tutto quello che incontrò lungo il percorso. Alla sera il bilancio era di sei vittime.
Guglielmino e Giuseppa abitavano al quinto piano di un complesso di vecchie case popolari, videro la marea passare dalla finestra e si spaventarono ma non avevano più paura della morte, anzi l'aspettavano insieme, come insieme avevano percorso le strade della vita, così se ne sarebbero andati, volando mano nella mano.
Alla sera tardi, erano circa le ventuno, la televisione accesa trasmetteva ancora notizie sul disastro avvenuto nel pomeriggio a Genova, Guglielmino chiamò la figlia visto che lei ancora non si era fatta sentire, non tanto per dirle che era tutto a posto, che ancora per il momento erano vivi ma soprattutto per sapere come si era sviluppata la faccenda relativa al censimento dell'Atc. Guglielmino era molto preoccupato in quanto pochi mesi fa, aveva ricevuto una lettera con un modulo da compilare ma non avendo capito di cosa si trattasse lo lasciò nel dimenticatoio del cassetto e cosi si videro aumentare l'affitto da ottantadue a quattrocento euro. Non se li potevano permettere.
La figlia gli rispose che sicuramente si sarebbe sistemato tutto, era solo un errore da verificare, ed era contenta che stavano bene. Lo salutò dopo pochi minuti.
Giuseppa lo guardò, "dice che ti saluta, domani ti chiama" e di nuovo rivolse lo sguardo al televisore. Guglielmino si mise seduto vicino alla moglie e posò la mano sulla sua, facendole girare la fede che teneva al dito.
Sessantasei anni trascorsi assieme sembrano solo un numero ma sono ben altro; entrambi guardavano lo schermo che trasmetteva le stesse immagini da ore, ma nessuno dei due ne era preso veramente, pensavano alla loro fine, alla morte. Pensavano a quanta vita avevano trascorso cercando di campare il giorno dopo, tutto il tempo presente era usato in facoltà del giorno seguente: come facciamo a mangiare domani? Come facciamo a far studiare la giovane Sofia? La casa? La pensione che non bastava mai. Guglielmino si era dato sempre molto da fare, non aveva visto crescere la figlia e faceva l'amore con la moglie nemmeno tre volte al mese, ma non si lamentava molto, era un uomo pacifico e di poche aspirazioni.
Venne il mattino seguente, lungo le strade c'era un silenzio spezzato solo da ruspe e vanghe, buona parte dei cittadini era già in strada a togliere il fango. C'era una pioggerellina che infastidiva ma non preoccupava. Guglielmino era sceso in strada, si stava recando alla farmacia per comprare le solite medicine, ma la farmacia comunale del quartiere era chiusa. Si incamminò lungo i portici, il suo sguardo veniva continuamente rapito dalle auto accatastate una sull'altra, pensava alla forza di quella marea, pensò, e decise che quello era il segno che gli avrebbe dovuto dare la forza; erano morte sei persone tra cui tre bambini, perchè, si chiedeva indispettito non poteva essere capitato a lui e alla moglie? Perchè la morte è così cieca di fronte al dolore?
Non si accorse di aver oltrepassato una farmacia aperta, ma non gli importava, non avrebbe comprato, per questa mattina, le medicine, non servivano più. Si mise seduto, al primo bar aperto che incontrò, ordinò un bianchetto e lo rimase a guardare, pensava, scorreva la sua vita, aveva ottantasei anni e gli unici ricordi vivi che reggevano al tempo erano quelli più vecchi, la sua adolescenza, la giovinezza.
Bevve, svuotò il bicchiere senza aver aggiunto l'acqua e si sentì un po' più forte, quasi sorrise.
Tornò a casa, salì le scale e si tolse il cappotto, il berretto. Li ripose nell'attaccapanni.
Si avvicinò alla moglie e la guardò, socchiuse gli occhi e la portò fuori sul balcone.
Lei non disse nulla, gli appoggiò la mano senza voltarsi sulla sua e rimase serena aspettando. Lui con tutta la forza ed un gran magone alla gola riuscì ad alzarla, appoggiarla alla ringhiera e darle un bacio fra i capelli. Si chinò sulle ginocchia e le strinse forte i polpacci, poi si rialzò e non la vide più.
Si sentì gli occhi gonfi, pronti a straripare, ma aveva paura, paura di piangere, perchè se si sarebbe lasciato andare, se avesse pianto, avrebbe allagato nuovamente tutta Genova.
Prese il telefonino in mano e schiacciò il tasto dove era disegnata una cornetta verde, partì la chiamata verso la figlia. Era l'unico numero nel telefonino, nessun altro, nemmeno il medico. Quando rispose, non disse null'altro: "Ho ucciso tua madre, ed ora me ne vada anch'io, ciao".
Tornò sul balcone, guardò sotto, c'era già qualche curioso che circondava il corpo della moglie, non voleva aspettare un secondo di più, non voleva starle così lontano e si gettò nel vuoto per tornarle nuovamente accanto.




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