giovedì 12 settembre 2013

Cosa è diventata la repressione nell’attuale società dei consumi: genealogia di una frustrazione.

Cosa è diventata la repressione nell’attuale società dei consumi: genealogia di una frustrazione.


Articolo di
Scritto il 1 agosto, alle 03 : 33 AM
letteratu.it




Avere non significa nulla se non c’è un impulso interno che determini l’aspirazione a un siffatto possesso. Quindi l’Avere può tradursi tranquillamente in Volontà. La società non oscilla tra l’Essere e l’Avere, ma tra l’Essere e il Volere. Questo dualismo non è altro che il mero tentativo di schematizzare qualcos’altro. Io andrei oltre, ovvero una Società che parte dall’Essere e dal Volere per giungere al Voler Essere.
Inibire le risorse autentiche della nostra coscienza e comprimerle con desideri vani, inutili, inefficienti perché non a misura delle nostre effettive possibilità è stato l’unico vero scopo di ogni società. Essa stessa non è un corpo malato, ma nonostante ciò non può illudersi di essere la migliore oggettivazione che lo spirito umano sia riuscito a compiere per sé stesso. In un contesto come questo, quando si parla di Volontà, si parla soprattutto di una volontà che autonomamente, coscienziosamente, liberamente crea una sovra struttura che governi quella sottostante. Una struttura ideale, un ideale che, ovviamente, non può essere attuato tanto quanto è incommensurabile la sua perfezione.
Cos’è allora la repressione? In questa società, la repressione rivela come prima forma il suo contrario, delle forze opposte come “imprimere”, “stimolare”, “esprimere”, “motivare”, “fissare”, tutto ciò che non vieta ma che ti consente invece una possibilità, di rendere possibile l’impossibile, di convertire le tue aspirazioni in realtà, di tramutare la volontà come causa in effetto. Il divieto è nella “presa di coscienza”. Quanto più aspiriamo, quanto più crediamo di poter fare il grande salto, quanto più desideriamo, sogniamo e ci convinciamo che l’impossibile è in realtà una menzogna, essa, la coscienza, ci catapulta nuovamente nella verità, un suolo circoscritto solo dalle umane possibilità, dai limiti, dalle vere capacità. La coscienza diventa l’unico vero metro di paragone del tuo valore. Veniamo inghiottiti continuamente da una cultura che offre meravigliose possibilità. Tuttavia la coscienza subisce la presa d’atto di sé stessa, davanti a questo spettacolo ci induce a una frenata, a sterzare immediatamente perché la strada, più avanti, non porterà a nessun paradiso.

Si oscilla tra la necessità e la libertà, tra il possibile e l’impossibile. Ci iniettano un agglomerato d’impulsi che lasciano dentro solo un concentrato di possibilità che mai verranno risolte, un aggregato di desideri che sembrano esplodere in tutta la loro efficacia ma che invece rimangono in mero stato di potenza, irrisolti e irrisolvibili. Insomma si cerca di erigere un palazzo con del materiale fornitoci da qualcun’altro, ma su delle fondamenta che non reggeranno mai il peso della struttura che andremo ad edificare. Ciò che viene indotto dalla cultura della società contemporanea è un irrealizzato che si spaccia per realizzabile. La repressione nasce dal suo contrario, da una pressione che resta sospesa in uno stato di pura condizionalità, ovvero condinzionale alle capacità umane. Non è, quindi, il “posso” ma il “potrei” la stregoneria della società. Ogni “potrei” è il preambolo al limite che separa l’inumano dalla coscienza umana. Il trucco non sta in una libertà ottenuta, ma in una libertà ottenibile mediante il sacrificio e il lavoro. In un Occidente apparentemente cosmopolita le libertà non coincidono, non trovano l’abbraccio perché esse in realtà colludono, con la variante che da questa fabbrica il prodotto che ne esce viene immesso nel mercato senza essere mai acquistato. Quella dell’Occidente non è libertà ma solo un coagulo di possibilità alla libertà, e in questo moltiplicarsi di possibilità, in questa crescita esponenziale, non c’è posto per l’acquisto: le azioni dell’uomo rivelano di queste libertà in potenza solo un susseguirsi d’impossibilità, e più aumentano le possibilità irrisolte più ci si imbatte nel dolore e nella frustrazione.
Frustrazione è un termine che viene utilizzato spesso nelle teorie psicanalitiche. Edipo, che vedeva nella madre un oggetto del desiderio sessuale, uccise il padre. In questa mirabile metafora Freud parla di Identità e Relazione, ciò che noi abbiamo traslato nei concetti di Essere e Volere. Il bambino, durante la sua esistenza, imita il padre per Essere il padre, ovvero colui che fruisce della madre. In questo modo il bambino ambisce a quello statuto ontologico che gli consente di Volere ciò che gli spetta di diritto. In un processo d’imitazione il fanciullo ottiene la sua identità maschile. Un’identità importante sotto il punto di vista della Relazione per due motivi: se non so chi sono non potrò mai conoscere cosa dare, e di conseguenza non saprei a chi elargire i miei doni. Ovviamente il padre continuerà ad andare a letto con la madre, ed ecco perché il bambino cresce frustrato: l’oggetto del desiderio, dopo tanta fatica, non viene raggiunto. I processi di frustrazione possono avere due esiti: la depressione, ovvero la definitiva rinuncia alla meta che per il soggetto risulta oramai irraggiungibile; al contrario, una specie d’incentivo, ossia un impulso ulteriore, un maggiore sforzo per arrivare all’oggetto tanto desiderato. Se gli oggetti restano desiderabili ma lontani dal soggetto si crea un azzeramento del desiderio; in altri casi invece il desiderio è direttamente proporzionale alla “dilatazione” tra l’oggetto e il soggetto, e può convertirsi, qualora il soggetto ritenga necessario farlo, in gratuita e arbitraria violenza. C’è questa capacità nell’essere umano di oscillare continuamente tra due estremità: da una parte il vasto mondo della psicopatologia; dall’altra una disposizione all’omicidio. Tra il “ciò che si può volere” e il “ciò che non si può avere” si instaura la perversione, cioè il ripetersi nel soggetto di un desiderio che va ad acutizzarsi senza che venga appagato, e la dimensione della morte. In entrambi i casi vi è uno scompenso e un allontanamento dalla società. La repressione non va più intesa come coercizione fisica, ma una malata aspirazione all’impossibile, la metastasi delle nostre reali possibilità, una devianza allo sviluppo psico-emotivo dell’individuo.
Rompere l’incantesimo della società consumistica è del tutto vano, perché richiederebbe uno sforzo non più intellettuale ma, per certi versi, evolutivo, e l’evoluzione non retrocede mai di un passo. Invece il valore della Vita, quel senso che chiediamo a noi stessi, che pretendiamo da ognuno, può essere ancora recuperato. Giungere, allora, ad una controcultura che, da un dubbio metodico, ci faccia arrivare all’autonomia del proprio pensiero, prima che l’autocoscienza che l’individuo ha di sé stesso si tramuti in patologia.

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