mercoledì 14 agosto 2013

SENZATETTO

La notizia è un po' datata, è del 30 dicembre 2011: 

Clochard muore Aveva rinunciato a 250mila euro.

BOLZANO. Era morto la notte di Natale nel centro di Bolzano, lambito dalla fiamme di un fuoco acceso per far fronte al freddo.

Mi è venuto da pensare, da riflettere, certo ad alcuni può sembrare banale e scontato, facile fare battute di ovvia disapprovazione, ma comunque a me è venuta voglia di dare un volto a quell'uomo; e così è nato questo racconto.


 
SENZATETTO

     Scesi i tre gradini e posai le scarpe sul pavimento della stazione. Non era stato un viaggio particolarmente lungo, due ore, in cui pensai e ripensai come avrei fatto per trovarlo.
Annalisa era venuta con me, conosceva meglio la sua famiglia, sua madre, erano molto legate, forse mi sarebbe stata di aiuto.
Percorremmo il lungo corridoio che ci portò fin dentro la stazione di Milano, guardai l'orologio, alzando notevolmente lo sguardo, erano le sei del pomeriggio e non sapevo da dove iniziare. Certo, ero in uno dei luoghi più accreditati per trovarlo, la stazione, quale miglior posto? Mi guardavo furtivamente in giro, vedevo parecchie persone, sia uomini che donne, distese a terra, fra le colonne con una coperta gettata a coprirsi il corpo, erano senzatetto. Non faceva ancora molto freddo, ma le previsioni avevano detto che presto sarebbe peggiorato. Uscita dalla stazione mi trovai di fronte una grande piazza; seduti su quasi tutte le panchine, stranieri che bevevano birra e facevano un gran chiasso. Era Giovedì. Mi ero dovuta prendere due giorni di permesso per poter venire fino a Milano, ma glielo dovevo, ero l'unica a cui lo poteva chiedere e soprattutto che avrebbe accettato. Annalisa, per lei è diverso.
Alzai gli occhi al cielo e vidi una vicina, grande luna; mi venne da sorridere nel pensare che fortuna, era riuscita a farsi spazio fra questi grandi palazzi, era riuscita a trovare uno squarcio di cielo e porsi a me.

Percorsi via Scarlatti, attraversai via Settembrini e mi fermai all'hotel Cristallo; lasciai che la porta si aprì ed entrai, sempre seguita da Annalisa che ancora non si era fatta sentire. Presi le chiavi e salimmo fino alla camera numero trentaquattro; era fra gli hotel più luridi che avessi visto finora, ma la cosa non mi turbava. Mi affacciai al balcone cercando la luna, ma non si vedeva, abbassando lo sguardo notai attraverso la finestra di fronte un uomo, al pianoforte. Indossava un cappello, stile anni sessanta, la barba lunga ed il capo che ondeggiava, mi lasciai cullare per un poco poi mi voltai verso Annalisa e le chiesi come intendesse muoversi.
Lei senza ancora guardarmi, aveva posato la borsa sul letto, scegliendo quello di destra, accostato al muro, si tolse la giacca e fece per avviarsi in bagno, mi guardò – iniziamo a chiedere a qualcuno, alla stazione, se magari lo conosce, poi vediamo. Vado un attimo in bagno e usciamo.
Mi rivoltai verso il punto in cui c'era quell'uomo, era ancora lì, le sue mani non le vedevo bene ma sentivo, percepivo il tocco sui tasti, la grazia con cui suonava, l'amore che cercava e forse volutamente non trovava. Ma perchè gli uomini sono così complicati, perchè si fanno prendere dagli ideali e non ne riescono più ad uscire? Pensai a mio marito, rimasto a casa coi bambini e mi venne un po' di stizza ora a ricordare la sua risata quando gli dissi che Maria mi aveva chiesto, poco prima di morire, di ritrovare il figlio e dirgli che tutta l'eredità era sua, che poteva e doveva smettere di essere un barbone, un senzatetto; che lui, oltre un sacco di soldi, aveva pure parecchi tetti. Mi rise in faccia e scosse la testa, dicendomi – non lo troverai mai, e comunque lascialo morire per strada quel disgraziato che alla fine se l'è cercata lui quella vita. Nessuno lo ha obbligato. Sua madre gli aveva offerto ogni ben di Dio e lui aveva rifiutato, che se ne stia a crepare dal freddo.
Ma un uomo non può capire le tragedie dell'amore e Giovanni aveva vissuto una terribile tragedia dopodiché decise di tornare libero, finalmente lontano da tutti, dalla finzione, dall'inutile spreco dei giorni e dei sentimenti. Ora poteva piangere serenamente. Ma un uomo sano di mente non può capire.

Dovetti saldamente aggrapparmi alla corda.
La cima era legata alla ragione, ed il resto rimaneva sospeso sopra l'abisso della follia, non potevo guardare in basso per non rischiare di cedere e cadere, di nuovo. Perchè tutto, tutte le emozioni nascono da laggiù, da quel profondo infinito abisso che è la follia.


Mentre ascoltavo quella melodia provenire dall'altra parte della strada, ripensai alle parole che Giovanni mi disse in un'occasione in cui ero andata a casa sua, a trovarlo, ci vedevamo così di rado eppure eravamo cugini e ci volevamo bene. Tutte le emozioni nascono da laggiù, da quel profondo infinito abisso che è la follia.
E certo che un po' folli lo siamo stati, quando da bambini, ancora ignari di cosa fosse il sesso, ci chiudevamo in camera mia ed io mi spogliavo, facendogli tenere gli occhi ben chiusi, mi mettevo l'accappatoio addosso e iniziavo a stuzzicarlo. Poco a poco imparammo cosa fosse il sesso e i suoi prodigi, ma eravamo troppo piccoli e i genitori troppo adulti.

Finalmente Annalisa uscì dal bagno, sembrava avesse pianto ma forse era solo stanchezza, mi diedi una rinfrescata anch'io e uscimmo, erano ormai le sette della sera. Facemmo il percorso inverso, tornammo alla stazione, salimmo qualche gradino e iniziammo a scrutare. A chi chiedere, cosa chiedere. Annalisa mi scambiava occhiate perse, ad ogni colonna c'erano cartoni gettati a terra, grandi buste gonfie di abiti e chissà cos'altro. Notai una donna stesa a terra con una coperta fino al collo e come cuscino la Bibbia, mi avvicinai e mi chinai a qualche passo da lei. Mi guardava e aspettava; era una signora anziana. Le chiesi se conosceva un certo Giovanni Palladino, un uomo robusto dai modi signorili; ma mi resi conto dell'inutilità di quello che stavo facendo, difatti nemmeno mi rispose.
Camminammo lungo tutta la stazione, chiesi ancora a qualcuno ma il risultato fu sempre lo stesso, andammo a mangiare qualcosa. Durante il pasto Annalisa mi disse qualche posto dove avremmo potuto trovarlo, si era informata prima della partenza dei luoghi più trafficati dai barboni.
Scendemmo alla fermata di Cadorna, ci incamminammo lungo corso Magenta e mentre presi il telefono per dare la buona notte ai miei figli, vidi poco distante un signore seduto a terra, imbacuccato fino al naso per resistere al freddo della notte che stava per arrivare, ci avvicinammo e fu Annalisa a chiedere informazioni – chi state cercando? – ci rispose spalancando la bocca sdentata – ma voi dite il poeta. Ci incontriamo spesso, a pranzo, alla mensa. Lo trovate più giù, alla chiesa, la santa Maria delle Grazie, salutatemelo se lo trovate.
Finalmente. Era sicuramente lui, il poeta, e come altro lo avrebbero potuto chiamare.
Camminavamo con passo spedito ma a poco a poco che ci avvicinavamo l'andatura si faceva sempre più lenta, avevo un intreccio di pensieri a cui non facevo più capo. Mi ripetevo la parola, poeta, come suonava bene e dire che fu proprio quando venne riconosciuto come tale, anche dalla stampa, quando finalmente gli pubblicarono la raccolta di poesie che si allontanò della vita, da quella vita senza più i suoi affetti. Mi fece ridere di un sorriso amaro il venire a sapere che lei, la moglie, non ne aveva letta nemmeno una, prima della pubblicazione. Giovanni aveva raggiunto un suo scopo ma in quel momento ne perdeva un altro, l'essere padre.

Aveva un carrello della spesa al fianco, gonfio di oggetti. Mi avvicinai a lui e mi feci notare. Mi sbocciò un sorriso involontario appena lui mi guardò, mi sentivo in imbarazzo, io, per quella situazione. Capii, che mi stava aspettando; evidentemente fra loro, le notizie si muovono veloci.
Aveva la barba molto lunga, come pure i capelli, era sporco e puzzava, ma ora non mi interessava, sentivo dentro di me qualcosa che mi solleticava, mi provocava piacere, ero felice.
Annalisa uscì da dietro le mie spalle e lo salutò – ciao Giovanni, quanto tempo – si chinò su di lui e gli diede un bacio sulla fronte con un movimento molto lento, forse voleva dargli il tempo di schivarsi, ma non lo fece. Si alzò, ci salutò e ci chiese il motivo della visita. Gli dissi che sua madre era morta, che mi aveva chiesto di ritrovarlo e convincerlo a lasciare quella vita, che in banca aveva un conto molto cospicuo e che sia la casa in città che quella in campagna erano sue, insomma c'era a disposizione una bella vita agiata. Distolse lo sguardo e lo fissò su Annalisa, non diceva nulla, Giovanni attese un po' e mi disse che era dispiaciuto, per la morte della madre, che sarebbe sicuramente passato a lasciare un fiore sulla sua tomba e concluse dicendomi, guardando Annalisa, che questa era la sua vita e non sarebbe mai più tornato indietro. Mi disse che forse la sua scelta era stata un po' estrema, molti di quelli come lui, avrebbero accettato subito l'offerta ma, non lui – questa è la mia vita e se vi sembra carente in qualcosa, sbagliate.
Non volevo lasciarlo così in fretta, gli proposi di bere qualcosa; mi guardò con uno sguardo strano, che non capivo. Visto che non volle entrare in nessun locale, comprai una bottiglia di vino rosso e ci sedemmo sulle scalinate della fontana che si ergeva al centro della piazza. C'erano parecchi ragazzi a divertirsi, c'era trambusto ma noi eravamo isolati. Io non potevo sapere tutto quello che Giovanni aveva già bevuto fino ad ora. So solo che quella bottiglia che insistetti per offrirgli alla fine l'accettò e vidi, capii, che si stava sciogliendo un po'. Si passava la mano sul viso e con le dita si stropicciava gli occhi.
Dopo il primo sorso, dopo che Annalisa si era seduta fra noi, mi disse che tutte le persone possono avere ciò che vogliono – la maggior parte di noi soffre la vita per paura di lasciare la presa e finalmente, cadere. E' questo che vi manca, mia cara Teresa, lasciare la presa di questa vita, insoddisfacente, finta e iniziare a vivere. Ve ne uscite con frasi del tipo “non posso lasciare il lavoro, poi, come faccio?”, oppure “ma guarda che io ho due figli da tirare avanti e se va male? Non posso fare come mi pare” Ecco è qui che vi sbagliate, si può fare come ci pare. Hai mai provato? - e mi guardò serio. Bevemmo un paio di bicchieri in silenzio, ascoltando le canzoni di un giovane violinista seduto a terra. Giovanni non mi guardava, pensava e ad un tratto proseguì – Hai mai provato a fare ciò che volevi? Beh, mia cara Teresa io ti dico che nel momento che lasci, ottieni tutto ciò che vuoi. Ma tu non proverai mai, hai paura e questo ti terrà, a vita, legata all'amarezza della tua esistenza. Basterebbe farlo, null'altro. Pure io come sai, ho esitato e ho sofferto, ma ora, faccio ciò che voglio e tutto il resto, sono solo chiacchiere.
Svuotai il bicchiere, la bottiglia era terminata, sentivo una strana sensazione; anche Giovanni si alzò.
Ci salutammo, senza aggiungere molto altro, ma prima di andare prese dal carrello un blocchetto, dalla giacca una penna e scrisse qualcosa su di un foglio bianco, che poi ripiegò e mi mise tra le mani. Non lo lessi, lo misi in tasca e mi avvicinai al suo viso sporco per baciarlo, poi ci voltammo e ritornammo all'hotel, in silenzio.


Passarono circa dieci anni da quando ero stata a Milano per trovare Giovanni e dirgli della morte della madre, non ci pensavo più molto, ma a volte capitava per una serie di coincidenze che mi tornasse alla mente, come questo pomeriggio. Era Venerdì e suonarono alla porta, alzai lo sguardo per vedere l'orologio, erano le sei del pomeriggio, andai a vedere chi fosse e trovai fuori dall'uscio due carabinieri. Li feci accomodare, erano venuti per informarmi della morte di mio cugino Giovanni, ero l'unica parente che fossero stati in grado di rintracciare. Mi dissero che faceva molto freddo, e che per scaldarsi aveva dato fuoco a qualche cartone rimanendone imprigionato. Era morto bruciato.
Non ne fui molto scossa ma sentivo un vuoto dentro di me, Giovanni non era una presenza fisica nella mia vita, era più... una voce con cui riflettere, una coscienza con cui fare i conti. Mi bevvi mezzo bicchiere di whisky, apri il cassetto e rilessi la poesia che Giovanni mi scrisse ben dieci anni addietro, mi accomodai sulla sedia e mi venne quel pensiero che più di una volta, accolsi – pensa se sarei riuscita a fare la senzatetto, a vivere senza più gettare il mio tempo ma allo stesso tempo, che farne di tutto questo tempo? Siamo schiavi.

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