venerdì 16 agosto 2013

La Ricerca della Felicità


 

     In più di un'occasione mi sono trovato a leggere o vedere, articoli e interviste relative all'economia mondiale che ci stà schiacciando. Penso sia evidente ai più che viviamo in una condizione di materialismo smisurata, tutto si muove in base al possesso. Accatastiamo ogni giorno dei beni inutili. Abbiamo molto di più di quello che ci può essere utile e nonostante questo siamo all'apice dell'infelicità. Evidentemente ci manca qualcosa di molto più prezioso.




LA RUBRICA DI BUKOWSKI


Avevo iniziato a scrivere quest'articolo l'undici Aprile di quest'anno.
Sono due anni che collaboro con Il Diario, un quotidiano nazionale tra i più venduti, e da circa la metà del tempo, occupo una rubrica settimanale che ho intitolato: La rubrica di Bukowski.
Avevo scelto questo nome un pomeriggio, dopo essere uscito dall'appartamento di una prostituta. Una donna cicciona, che approssimativamente doveva avere qualche anno in più di mia madre. Consumai il rapporto, ma in quel momento, mentre scendevo le scale, non riuscivo a smettere di chiedermi cosa diavolo spingesse quella donna a fare la prostituta.
Lo so, la domanda può anche sembrare banale e scontata, ma fu questo, il ripetermi insistentemente “ma che diavolo ci fa lei qui? E perché quell'uomo nonostante tutto ha scelto di dormire per strada? Possibile che l'unica soluzione fosse il suicidio?” che mi fece arrivare a capire il disorientamento di questa società, nonché il mio.
Bukowski; era il nome perfetto per una rubrica che ospitasse i miei articoli. Parlavo spesso di personaggi ai margini, ed ero convinto che quelle storie non fossero racconti di casi eccezionali, ma che ci appartenessero più di quanto noi pensassimo.
Ora stavo scrivendo un nuovo articolo, una denuncia sociale, ma il ventidue Aprile era un Giovedì ed io alle quindici e ventisette fui dichiarato morto.
Solo grazie alla crudeltà e cattiveria di mia moglie potei, sette giorni dopo, resuscitare e tornare alla vita.



UNA NUOVA VITA SENZA STRESS

The Venus Project.
Nella società di oggi raramente si sente qualcuno parlare del progresso del suo paese o della società in termini di benessere fisico, felicità, fiducia o stabilità sociale. Piuttosto le misure ci vengono presentate per mezzo di estrazioni economiche: Pil, borsa, inflazione...
Troppo spesso si pensa che il Pil sia correlato al benessere della gente; ma non è così. Ad esempio, un popolo malato fa aumentare l'economia.
Bisogna creare problemi per creare profitto. Il crimine è un affare; le prigioni sono un affare. Più la gente si indebita e più è schiava, governabile, e soprattutto, bisogna mantenere la disuguaglianza.
Si è notato in uno studio Australiano, che i paesi con meno disuguaglianza hanno meno violenza degli altri paesi. Dove c'è povertà ci sono più malattie, c'è più stress; e questo è il punto.
La natura è l'unica vera dittatura. Una nuova società, senza stress, che pensa alle risorse del mondo e non al denaro è l'unica alternativa. Un'economia senza denaro dove l'uomo ritrova la sua centralità.
Questo, miei cari lettori, la sintesi del progetto Venus; un mondo dove non c'è il fornaio che si alza alle tre del mattino per fare il pane, dove il contadino non prende la terra fra le mani e l'assaggia... Lo so forse sono rimasto un po' indietro, forse troppo romantico ma, come puoi vivere in mondo dove non c'è la poesia?



Ero seduto, scrivevo il mio articolo controllando gli appunti che avevo a fianco, quando ad un certo punto mi sentii una fitta al petto, fu tremenda e me lo strinsi forte con la mano sinistra. Posai la fronte sul tavolo chiudendo gli occhi, ed aspettai sperando passasse.
Mia moglie mi trovò ancora in quella posizione dopo qualche ora, ero svenuto. Chiamò un'ambulanza specificando bene l'indirizzo, poi si chinò un poco su di me e rimase ferma ad osservarmi.
Forse è la volta buona, pensa che bello se se ne andasse finalmente fuori dai coglioni.
Il medico del 118 le disse che non respiravo più, che ero in coma cerebrale. Mi portarono all'ospedale santa Caterina e lì rimasi per tre settimane, senza mangiare e senza bere, tenuto in vita da un piccolo tubicino.
Annarita mi stava vicino, seppur non sopportava quella situazione. Sperava finisse in fretta e a suo vantaggio; ma doveva pur far sembrare che fosse una brava moglie.
La prima settimana trascorse molto silenziosa, il mio cervello non voleva saperne di tornare ad avere a che fare con me.
L'ottavo giorno la mia vita stava per cambiare.
Entrarono nella stanza due giovani medici, si avvicinarono al mio letto ed osservarono la cartella clinica; quello più alto, secco, coi capelli asfaltati dal gel, parlò per primo: “Questo tocca a me, ho già prenotato le vacanze. Gli togliamo tutto, ha gli organi a posto. Facciamo in fretta prima che muoia completamente. Io vado a prenotare la sala operatoria, tu dillo alla moglie. Ci vediamo quando la sala è pronta.” fece per andarsene ma l'altro, riposizionandosi gli occhiali gli fece un gesto, come a dire... mare e belle donne? Sorrise, scosse il capo ed uscì.
Il medico si avvicinò ad Annarita che era seduta con in mano un caffè. Le disse che ero in coma irreversibile, era giunta la morte cerebrare, non potevano più fare niente per me, ed infine aggiunse che era dispiaciuto. Mia moglie non pianse, abbassò il capo e rimase silenziosa. Il medico si era già voltato e se ne stava per andare, ma si fermò, si girò e disse ad Annarita che stavano portando il corpo in sala operatoria per esportare gli organi. Annarita, sempre rimanendo china, ebbe un'impercettibile sussulto, ma per ora non disse nulla. Il medico se ne andò.
Mi misero sul lettino, l'infermiera era pronta; tutto il necessario riposava steso sul vassoio, il dottore, coi guanti alle mani e la mascherina in volto mi si avvicinò; ma ci fu un imprevisto e la suspense dell'operazione fu interrotta dall'amico medico che, precipitandosi dentro la sala fece segno di sospendere tutto.

Mia moglie era ben consapevole dei miei desideri, non avevo mai lasciato nulla di scritto sulla mia morte perché sapevo che non ce n'era bisogno. In caso di mancata dichiarazione c'era il tacito assenso, era come aver detto di si e questo mi stava bene; a me. Mia moglie, quel giorno, ebbe la brillante idea di andare, ancora una volta, contro la mia volontà.
Si era fatta dare da un'impiegata dell'ospedale il modulo per bloccare la donazione dei miei organi. Così, il medico con gli occhiali si avvicinò al suo amico e gli disse che le vacanze dovevano essere rimandate, la moglie aveva bloccato tutto; lui bestemmiò ed uscì dalla stanza. Il paziente, cioè io, fu riportato in reparto e riattaccato ai tubi.
Una settimana dopo mi svegliai.

Uscì subito dopo aver firmato il modulo, ora, non gli importava più di nulla, la mia fine era venuta e lei era finalmente libera. Aprì l'ombrello, la pioggia era già da tre giorni che non cessava di scendere, e si incamminò verso la metropolitana.
I suoi pensieri erano confusi, certo mi odiava, ma ora, ora che io non potevo più intaccare la sua vita, con chi prendersela? A chi dare la colpa?
Si mise seduta ed aspettò.
Alla seconda metropolitana che si fermò salì. Anche lungo il tragitto i suoi pensieri furono cosi fitti da farla scendere due fermate in ritardo. Si incamminò a piedi verso casa, e lungo il tragitto passò dinnanzi al cinema: Azzurro Scipioni. Gliene avevo parlato qualche tempo fa; mi era capitato di conoscerne il proprietario e non potei che rimanerne entusiasta, la sua ultima campagna promozionale era: Proclamare l'essere umano, patrimonio dell'umanità. Ne aveva parlato direttamente con L'Unesco e non era detto, secondo lui, che non lo prendessero in considerazione. Ad Annarita la cosa sembrò una cavolata, ma ora, che tutto era cambiato, che non aveva più bisogno di contrapporsi costantemente con le mie parole, ci rifletté e la cosa le piacque. Pensò: “Visto che in autonomia non siamo capaci di valorizzarci, forse sarebbe bene che qualcuno si prendesse cura di noi” ma questo pensiero la portò, ancora una volta, a me.
Rimase per una settimana inerte, confusa e perduta, ma il settimo giorno si preparò per uscire. Tirò fuori dall'armadio uno dei vestiti che più apprezzava, si mise un po' di mascara e con la matita nera tracciò la linea del suo percorso; un leggero tocco di rossetto e fu pronta. Si guardò ancora per un po' allo specchio e quasi sorrise, si piaceva.


Mi dimisero dall'ospedale intorno alle due del pomeriggio, c'era un timido sole che ancora si nascondeva tra le poche nuvole rimaste, mi incamminai verso la metropolitana.
A qualche centinaio di metri da casa decisi di fermarmi in un locale che frequentavo un tempo con Annarita, un caffè letterario. Entrai, ordinai un caffè e mi misi seduto al tavolo. Presi in mano un quotidiano, lo stavo per aprire quando fui rapito da una signora seduta a poca distanza da me. Aveva qualcosa di famigliare, mi piaceva seppur non le vedevo il volto. Quello che mi attrasse effettivamente, per ragion del vero, fu il libro che teneva chiuso in mano. Era una raccolta di poesie di Bukowski che ben conoscevo. Mi alzai, le andai a fianco e cominciai a recitare quei versi con una disinvoltura a me inaspettata:

Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io gli verso addosso whisky e aspiro
il fumo delle sigarette
e le puttane e i baristi
e i commessi del droghiere
non sanno che
li dentro
c'è lui

Il suo volto si alzò e i suoi occhi mi guardarono, rimanemmo qualche istante in silenzio, spiazzati, poi lei proseguì:

nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io sono troppo furbo, lo lascio uscire
solo di notte qualche volta
quando dormono tutti.
Gli dico: lo so che ci sei
non essere
triste

poi lo rimetto a posto
ma lui lì dentro un pochino
canta, mica l'ho fatto davvero
morire,
dormiamo assieme
così col nostro
patto segreto
ed è così grazioso da
far piangere
un uomo, ma io non
piango, e
voi?

Le lacrime le invasero il viso, come risposta a ciò che aveva appena domandato; ero sicuro di vedere in lei una nuova fragilità: più pura, più bella, più necessaria. Il silenzio persisteva ma vi posso garantire che finalmente ci capimmo. Le presi le mani e me le portai al volto, le baciai.
Uscimmo dal locale abbracciati e ce ne andammo verso casa. Le raccontai velocemente i fatti accaduti dopo che se ne era andata dall'ospedale; tutto l'odio sembrava svanito. Mentre camminavo riflettevo sulla mia rubrica, sull'articolo che stavo scrivendo poco prima di sentirmi male e continuavo ad essere d'accordo con me stesso: un mondo senza poesia è impossibile.
Arrivati a casa andai nello sgabuzzino e presi il mio zaino, lo riempii con pochi vestiti, altrettanti libri e due cimeli. Annarita seduta sul divano era tranquilla.
Salutai con lo sguardo tutto ciò che mi circondava, presi le chiavi del mio amato camper e mi chinai su mia moglie. Le diedi un bacio ed un arrivederci: "A presto, ciao" e mi chiusi la porta alle spalle. Ora ero pronto a scomparire veramente, ero rinato e non volevo perdere questa opportunità così unica.
E come dice Bokowski: Non provarci, fallo e basta.



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