mercoledì 12 agosto 2015



Se nelle rotte confuse della mia vita non mi sono ancora perduto del tutto, se in ogni occasione di naufragi sono approdato in isole salvifiche, se da quasi diciassette anni scrivo poesie, se sono cambiato e cambierò, lo devo alle donne. A tutte le donne che ho conosciuto ed amato, a quelle che ho mitizzato ed alle amiche tuttora sorelle di smarrimenti e glorie.  Mi hanno, loro, sempre consegnato le mappe di nuovi mondi, di universi paralleli, di luoghi onirici. Mi hanno, alcune, ferito, terrorizzato, reso insonne, distrutto. Ma è sempre valsa la pena. E tutte le volte che mi sono rialzato, a tendere le mani, c’erano braccia femminili. Con un sorriso. Con un sorriso che lo sguardo non sa tollerare per quanto è spaventosamente ricolmo di tenerezza. Come la bellezza. La bellezza unica di essere donna, di rapportarsi con gli elementi in un connubio spirituale che è si un accidente, ma anche l’idilliaca vicinanza col tutto; con l’esistenza e con il mistero. Infatti la donna custodisce scrigni. Ogni cosa si svolge in modo arcano nella femmina. Nelle sue viscere e nella sua anima. In lei tutto è illuminato. Si fa copione divino, percorso di cosmo, atomi di splendore, alberi che allungano i rami per tirarsi giù il cielo. E come si può sopportare che queste creature vengano imprigionate dentro le tradizioni, picchiate, stuprate, obbligate a sottomettersi, a prostituirsi. E come si fa a non sentire le bombe che negli anni sono cadute in testa nelle loro abitazioni di fango o cemento, a non sentire tutte le grida disperate di donne abbandonate, rimaste senza figli o marito per colpa delle guerre. E come non travolgersi al pensiero di ragazze infibulate e lapidate, smembrate a colpi di machete. A quelle umiliate troppo spesso dentro le quattro mura di casa invece di essere protette. A quelle che furono torturate e bruciate durante la santa inquisizione, alle schiave per i bianchi, alle donne incinte squarciate dalle baionette dei regimi, annientate da patriarcati infami. E come non piangere le vittime di stalking, le donne a cui è negata l’istruzione o il diritto di voto.
Amo la donna perché è sopravvissuta. Perché ha dovuto imparare a mentire, ma quando il vento la ammantella, si sposta un po’ i capelli e pare la Verità. Amo la donna per il suo corpo intriso di celestiale, che si perde con la luna aprendo il cuore all’universo. Che sublima la nostra colpa di vivere e gira sembrando un miraggio. Amo la donna perché so di Frida Khalo che patisce trentadue interventi chirurgici e che non si piega a nessuna convenzione sociale dell’epoca. Perché so di Jeanne Hébuterne che, incinta, e poche ore dopo dalla morte del compagno che amava, Modigliani, si getta dal sesto piano. Perché so di Rosa Parks che, negli Usa, rifiuta, in piena segregazione razziale, di lasciare il posto a sedere, nel bus, ad un bianco. Amo la donna perché so della visionarietà poetica di Patty Smith.
Ed amo la donna perché adoro il suo corpo che sbocca sangue e custodisce vita, che avanza portando cornucopie di sogni per confonderci d’infinitudine. Amo quel suo “corpo elettrico” che respira all’unisono con madre natura invidiosa. Che perfeziona l’esistenza e scuote temporali, che si fa obbedire da mari ed arcobaleni e libera Eros. Amo la donna perché è ricolma di affastellati avvilimenti, di distanze ingestite, di velate provocazioni e pudicizie improvvise. Perché ha ali spezzate e sa comunque librarsi in volo, perché intrattiene grovigli di lontananze e beatitudini, ha soprassalti di strazi e ricordi non sopiti, ha perdizioni e coriandoli di mito. Perché si scuote di ansie e segreti sotto le tempie e tutto si compie dentro lei: nelle viscere, nel mistero. In simbiosi assoluta con la Bellezza ed il suo occulto. Perché la donna canta la bellezza e l’occulto.
“La donna è qualcosa d’ardente e di triste, qualcosa un po’ vago, che lascia corso alla congettura. Andrò ad applicare, se si vuole, le mie idee a un oggetto sensibile, all’oggetto, per esempio, il più interessante nella società, a un viso di donna. Una testa seducente e bella, una testa di femmina, voglio dire, è una testa che fa sognare in una volta, – ma in maniera confusa, – di voluttà e di tristezza; che presuppone un’idea di malinconia, di fiacchezza, persino di sazietà, – ma pure un’idea contraria, ossia un ardore, un desiderio di vivere, associato a un’amarezza rifluente, come provenisse da una privazione o da una disperazione. Il mistero, il rimpianto sono ugualmente caratteri del Bello.” (Baudelaire)

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