UN
DESTINO RIDICOLO
Tutti
i pomeriggi alle ore sedici e cinquanta mi sedevo sulla poltroncina
dell'intercity diretto a Sulmona.
Non
c'era molta gente, spesso ero solo lungo tutto il vagone. In quei
momenti, in quel viaggio che durava circa un'ora, riflettevo.
Le
mie giornate lavorative erano dure. I miei vestiti erano sporchi.
Durante il lavoro pensavo poco ai problemi esistenziali, rimanevo
concentrato su ciò che facevo. Invece sul treno, col rumore del
viaggio che mi cullava, mi lasciavo ha pensieri e ragionamenti
filosofici. Non era certo appagante la mia vita.
Mi
alzavo tutti i giorni alle cinque e mezza, mi preparavo il caffè e
uscivo nell'oscurità che avvolgeva la città. I miei figli
dormivano, mentre, mia moglie, avvolta nel tepore delle coperte mi
salutava accarezzandomi la guancia.
Durante
il viaggio di andata rimanevo immobile con lo sguardo rivolto fuori
dal finestrino. Non salutavo nessuno, non guardavo nessuno, ero
completamente solo. Arrivato a L'Aquila salivo sulla mia auto, che
tenevo parcheggiata fuori dalla stazione, e raggiungevo il posto di
lavoro. Con i colleghi non mi trovavo molto bene. Erano troppo presi
da sé stessi, sempre pronti a usare una parola aspra invece che le
buone maniere. Le buone maniere.
Avevo
diviso i vari operai che abitavano il cantiere, più o meno dodici
persone, in tre diversi tipi.
La
prima categoria era composta da quelli che, lavoravano e basta. Certo
si facevano qualche problema, alcune domanda, ma la vita era questa:
nulla più. Ci si doveva alzare la mattina per andare a lavorare, e
si tornava a casa la sera per riposare. Poche domande. Bisognava
portare i soldi a casa per far campare la famiglia.
La
seconda categoria era la più numerosa. “Che vita di merda! Ma cosa
campiamo a fare, tutto il giorno a faticare, a quale scopo poi? Che
senso a tutto questo?”
Lavoravano
e si lamentavano. Sentivano, sapevano, che c'era qualcosa di
sbagliato in tutto questo, nel sistema, ma cosa fare? Come cambiare?
E ogni mattina si alzavano per andare al lavoro incazzati,
insoddisfatti. Consapevoli che tutto ciò era sbagliato, ma incapaci
a uscire da quel circolo vizioso. Queste persone nutrivano dentro di
loro l'insana speranza che si potesse cambiare, ma erano inerti,
incapaci.
La
terza era composta da persone che, nel lavoro, trovano la loro unica
soddisfazione. Lavorano tutti i giorni, la sera fanno tardi, si
fermano con i colleghi – unici amici che hanno – al bar
a farsi una birra. Vedono poco i figli e la moglie. Del proprio
mestiere conoscono tutto, hanno fatto di tutto; ma della vita non
capiscono un cazzo.
Io
facevo parte della seconda categoria fino a quando lessi un articolo
di una infermiera delle Cure Palliative per malati terminali, che
assisteva i moribondi nelle loro ultime dodici settimane. Lei chiese
hai suoi pazienti i loro più grandi rammarichi o cosa avrebbero fato
diversamente. Non c'era né sesso né sport estremi, ma il rimorso
per non aver speso più tempo con la propria famiglia, gli amici, e,
per non aver saputo vivere felicemente.
Non
c'era nulla di nuovo da scoprire. Tutti la pensiamo nella stessa
maniera: ci accorgiamo di ciò che ha valore quando lo perdiamo, ma
nonostante questa consapevolezza continuiamo a vivere la nostra vita
nel modo sbagliato.
La
maggioranza delle persone, seduta al bar a sproloquiare, rimarcherà
per l'ennesima volta che lavora troppo, che non rimane loro tempo per
fare altro, ma comunque si dichiarerà impotente al cambiamento.
Avevo
diciassette anni quando presi per la prima volta il treno da solo.
Mentre ero seduto, guardando le immagini scorrere velocissime,
fantasticavo su una mia fuga. Ancora oggi, ogni mattina, mi scorrono
nella mente quei pensieri. Rimanere sul treno, andare oltre, per
ricominciare da capo.
Ma
perché c'è bisogno della fuga per poter ricominciare? E se lo
facessi qui, ora, insieme a tutto quello che ho? Sbarazzarmi di tutte
le paure e vivere la vita come veramente voglio? Ma poi chi darà da
mangiare hai miei figli?
Ero
appena giunto a L'Aquila quando presi la decisione.
Ci
sono dei momenti, difficile spiegare da dove scaturiscono, in cui si
riesce ad abbandonare ogni paura e gettarsi nel vuoto. Io quella
mattina mi gettai.
“Romé,
romé...” Quelle parole, ripetute per l'ennesima volta dal mio
collega col solo intento di offendermi e farmi sbottare, ebbero
l'effetto desiderato.
Lo
raggiunsi, lo guardai, gli sorrisi e gli diedi un pugno in faccia. Lo
presi poco sopra l'occhio, gli si aprì una ferita, in pochi secondi
si gonfio spropositatamente, il sangue colava a terra, anche lui si
mise seduto a terra.
Gli
sorrisi, beffardo, senza cattiveria, e me ne andai.
Erano
due settimane che lavoravo con Giampaolo e, per tutto il tempo, non
aveva fatto altro che offendermi e denigrarmi senza un vero motivo.
Si attaccava a stupide e inutile scuse per insultarmi. Non avevo mai
reagito, il lavoro mi serviva, non potevo permettermi di essere
licenziato, ma non si poteva vivere in quelle condizioni, il prezzo
per una vita mediocre era troppo alto.
Ed
ora, cosa fare? Mi avrebbero di sicuro licenziato.
Come
risvegliato da un sogno mi accorsi che aveva iniziato a nevicare.
Attorno a me, in lontananza ero accerchiato dalle montagne. Anche nel
mio paese faceva freddo, c'erano le montagne, e la vita era uno
schifo. Ma io ora, ero diventato positivo.
Entrai
in macchina e mi diressi verso casa.
Ero
sereno, seppur intontito, non mi sentivo spaventato. La vita avrebbe
accettato la mia decisione aiutandomi a far sì che tutto andasse
bene. Tutto doveva andare bene perché... Perché non avrebbe dovuto?
Guardavo
le montagne scorrere al mio fianco quando sentii il telefono
squillare.
Il
nome Mariano si visualizzo nel display. In quei pochi secondi che
esitai a rispondere mi balzarono alla mente molti pensieri. Perché
mi stava chiamando?
Mariano
era un mio grande amico fin dai tempi della scuola. Avremmo
dovuto venire in Italia insieme, ma poi, all'ultimo momento, lui si
ritrasse. Colpa di una ragazza. Restammo in comunicazione, in
amicizia: io gli volevo bene, lui mi voleva bene.
“Ciao
Mariano...”
Mi
disse che la Romania stava entrando nella comunità europea e lo
stato dava cinquanta mila euro a fondo perduto a chi avesse aperto
una nuova attività, garantendo un certo introito.
“Si
può fare...” Mi disse verso la fine della conversazione.
Era
di certo una buona possibilità. In Italia mi ero fatto strada
lavorando come un forsennato, ma le cose non erano mai andate per il
verso giusto. Ero riuscito a comprarmi una casetta di legno durante
il periodo passato a Roma, ma ci avevano dato fuoco. Mi ero giocato
ventimila euro alle macchinette in un bar di Sulmona, rischiando la
fine del mio matrimonio. Ma anche quella volta, piano piano, mi
rialzai. Non mi sono mai sentito in armonia con gli italiani,
purtroppo, c'è sempre bisogno di qualcuno con cui prendersela, con
cui sfogarsi: ora è toccato a noi.
E
così rientrai a casa, con stupore di mia moglie, visto l'orario, e
visto che, dopo soli due minuti che ero rientrato le dissi di
preparare i bagagli: “Torniamo a casa” pronunciai quasi con le
lacrime agli occhi.
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