venerdì 12 dicembre 2014

Un destino ridicolo

UN DESTINO RIDICOLO



Tutti i pomeriggi alle ore sedici e cinquanta mi sedevo sulla poltroncina dell'intercity diretto a Sulmona.
Non c'era molta gente, spesso ero solo lungo tutto il vagone. In quei momenti, in quel viaggio che durava circa un'ora, riflettevo.
Le mie giornate lavorative erano dure. I miei vestiti erano sporchi. Durante il lavoro pensavo poco ai problemi esistenziali, rimanevo concentrato su ciò che facevo. Invece sul treno, col rumore del viaggio che mi cullava, mi lasciavo ha pensieri e ragionamenti filosofici. Non era certo appagante la mia vita.
Mi alzavo tutti i giorni alle cinque e mezza, mi preparavo il caffè e uscivo nell'oscurità che avvolgeva la città. I miei figli dormivano, mentre, mia moglie, avvolta nel tepore delle coperte mi salutava accarezzandomi la guancia.
Durante il viaggio di andata rimanevo immobile con lo sguardo rivolto fuori dal finestrino. Non salutavo nessuno, non guardavo nessuno, ero completamente solo. Arrivato a L'Aquila salivo sulla mia auto, che tenevo parcheggiata fuori dalla stazione, e raggiungevo il posto di lavoro. Con i colleghi non mi trovavo molto bene. Erano troppo presi da sé stessi, sempre pronti a usare una parola aspra invece che le buone maniere. Le buone maniere.


Avevo diviso i vari operai che abitavano il cantiere, più o meno dodici persone, in tre diversi tipi.
La prima categoria era composta da quelli che, lavoravano e basta. Certo si facevano qualche problema, alcune domanda, ma la vita era questa: nulla più. Ci si doveva alzare la mattina per andare a lavorare, e si tornava a casa la sera per riposare. Poche domande. Bisognava portare i soldi a casa per far campare la famiglia.
La seconda categoria era la più numerosa. “Che vita di merda! Ma cosa campiamo a fare, tutto il giorno a faticare, a quale scopo poi? Che senso a tutto questo?”
Lavoravano e si lamentavano. Sentivano, sapevano, che c'era qualcosa di sbagliato in tutto questo, nel sistema, ma cosa fare? Come cambiare? E ogni mattina si alzavano per andare al lavoro incazzati, insoddisfatti. Consapevoli che tutto ciò era sbagliato, ma incapaci a uscire da quel circolo vizioso. Queste persone nutrivano dentro di loro l'insana speranza che si potesse cambiare, ma erano inerti, incapaci.
La terza era composta da persone che, nel lavoro, trovano la loro unica soddisfazione. Lavorano tutti i giorni, la sera fanno tardi, si fermano con i colleghi – unici amici che hanno – al bar a farsi una birra. Vedono poco i figli e la moglie. Del proprio mestiere conoscono tutto, hanno fatto di tutto; ma della vita non capiscono un cazzo.
Io facevo parte della seconda categoria fino a quando lessi un articolo di una infermiera delle Cure Palliative per malati terminali, che assisteva i moribondi nelle loro ultime dodici settimane. Lei chiese hai suoi pazienti i loro più grandi rammarichi o cosa avrebbero fato diversamente. Non c'era né sesso né sport estremi, ma il rimorso per non aver speso più tempo con la propria famiglia, gli amici, e, per non aver saputo vivere felicemente.
Non c'era nulla di nuovo da scoprire. Tutti la pensiamo nella stessa maniera: ci accorgiamo di ciò che ha valore quando lo perdiamo, ma nonostante questa consapevolezza continuiamo a vivere la nostra vita nel modo sbagliato.
La maggioranza delle persone, seduta al bar a sproloquiare, rimarcherà per l'ennesima volta che lavora troppo, che non rimane loro tempo per fare altro, ma comunque si dichiarerà impotente al cambiamento.

Avevo diciassette anni quando presi per la prima volta il treno da solo. Mentre ero seduto, guardando le immagini scorrere velocissime, fantasticavo su una mia fuga. Ancora oggi, ogni mattina, mi scorrono nella mente quei pensieri. Rimanere sul treno, andare oltre, per ricominciare da capo.
Ma perché c'è bisogno della fuga per poter ricominciare? E se lo facessi qui, ora, insieme a tutto quello che ho? Sbarazzarmi di tutte le paure e vivere la vita come veramente voglio? Ma poi chi darà da mangiare hai miei figli?

Ero appena giunto a L'Aquila quando presi la decisione.
Ci sono dei momenti, difficile spiegare da dove scaturiscono, in cui si riesce ad abbandonare ogni paura e gettarsi nel vuoto. Io quella mattina mi gettai.

Romé, romé...” Quelle parole, ripetute per l'ennesima volta dal mio collega col solo intento di offendermi e farmi sbottare, ebbero l'effetto desiderato.
Lo raggiunsi, lo guardai, gli sorrisi e gli diedi un pugno in faccia. Lo presi poco sopra l'occhio, gli si aprì una ferita, in pochi secondi si gonfio spropositatamente, il sangue colava a terra, anche lui si mise seduto a terra.
Gli sorrisi, beffardo, senza cattiveria, e me ne andai.
Erano due settimane che lavoravo con Giampaolo e, per tutto il tempo, non aveva fatto altro che offendermi e denigrarmi senza un vero motivo. Si attaccava a stupide e inutile scuse per insultarmi. Non avevo mai reagito, il lavoro mi serviva, non potevo permettermi di essere licenziato, ma non si poteva vivere in quelle condizioni, il prezzo per una vita mediocre era troppo alto.
Ed ora, cosa fare? Mi avrebbero di sicuro licenziato.
Come risvegliato da un sogno mi accorsi che aveva iniziato a nevicare. Attorno a me, in lontananza ero accerchiato dalle montagne. Anche nel mio paese faceva freddo, c'erano le montagne, e la vita era uno schifo. Ma io ora, ero diventato positivo.
Entrai in macchina e mi diressi verso casa.
Ero sereno, seppur intontito, non mi sentivo spaventato. La vita avrebbe accettato la mia decisione aiutandomi a far sì che tutto andasse bene. Tutto doveva andare bene perché... Perché non avrebbe dovuto?
Guardavo le montagne scorrere al mio fianco quando sentii il telefono squillare.
Il nome Mariano si visualizzo nel display. In quei pochi secondi che esitai a rispondere mi balzarono alla mente molti pensieri. Perché mi stava chiamando?
Mariano era un mio grande amico fin dai tempi della scuola. Avremmo dovuto venire in Italia insieme, ma poi, all'ultimo momento, lui si ritrasse. Colpa di una ragazza. Restammo in comunicazione, in amicizia: io gli volevo bene, lui mi voleva bene.
Ciao Mariano...”
Mi disse che la Romania stava entrando nella comunità europea e lo stato dava cinquanta mila euro a fondo perduto a chi avesse aperto una nuova attività, garantendo un certo introito.
Si può fare...” Mi disse verso la fine della conversazione.
Era di certo una buona possibilità. In Italia mi ero fatto strada lavorando come un forsennato, ma le cose non erano mai andate per il verso giusto. Ero riuscito a comprarmi una casetta di legno durante il periodo passato a Roma, ma ci avevano dato fuoco. Mi ero giocato ventimila euro alle macchinette in un bar di Sulmona, rischiando la fine del mio matrimonio. Ma anche quella volta, piano piano, mi rialzai. Non mi sono mai sentito in armonia con gli italiani, purtroppo, c'è sempre bisogno di qualcuno con cui prendersela, con cui sfogarsi: ora è toccato a noi.
E così rientrai a casa, con stupore di mia moglie, visto l'orario, e visto che, dopo soli due minuti che ero rientrato le dissi di preparare i bagagli: “Torniamo a casa” pronunciai quasi con le lacrime agli occhi.





Nessun commento:

Posta un commento