La lettera fu ritrovata dal tenente nella mattinata.
Kandahar 27giugno2013
Mia cara Rachele,
questa è la terza notte in cui non riesco a
chiudere gli occhi. Rimango seduto ai bordi dell'accampamento e
guardo il cielo. Ti penso, in questa fredda primavera, provo a
scaldarmi con il ricordo dei nostri incontri fugaci. Mi manchi, mi
manca la normalità d'un bacio, durante il saluto della sera; mi
mancano i tuoi occhi che mi esplorano in cerca di qualche segreto, ma
nulla ti ho mai nascosto se non l'assurdità di quella decisione. Non
mi importa nulla della patria, volevo solo assicurarmi un futuro per
noi, per il bambino che sta per nascere. Chissà... Ma non ti
preoccupare, non stare in pena per me mia piccola stella, ci hanno
detto che presto torneremo a casa, che il governo ha votato il
rientro, spero di abbracciarti presto e di dimenticare tutto. Non
sarà facile.
Ho nella mente quella casa a Trieste ricordi, l'abbiamo vista qualche estate fa; aveva un grande giardino, un porticato con il dondolo, sarebbe perfetta per i nostri bambini. Io e te seduti sui gradini a guardare le stelle senza più pensare a questo brutto periodo.
Non sai cosa voglia dire stare in guerra finché non
ti ci trovi, ho sempre ripudiato la violenza ma mi sono trovato qui a
sparare ad un nemico immaginario. Ricordi quando ti cantavo e suonavo
– la guerra di Piero? Eravamo felici allora e lontani dalle insidie
del futuro. Ti amo, e soffro nello starti lontano. Mi manca un tuo
contatto, una carezza. Soffro nel vedere, giorno dopo giorno, le
umiliazioni che prova questa gente, gli schiaffi morali che devono
subire, a cui noi li trasciniamo. Penso che siano da salvare queste
persone ma non so ancora bene come. Che senso ha una vita del genere?
Come potranno mai crescere questi figli, schiacciati dall'odio. Ma
pure noi, nel nostro bel occidente non è che siamo cresciuti tanto
meglio.
Qualche giorno fa sono entrato in una famiglia del luogo, sono stati gentili con me, i miei commilitoni li hanno trattati male, c'era anche la figlia più grande che si nascondeva nella cantina, l'hanno trovata.
Anche ieri sai, un bambino mi ha portato fino a
casa sua, mi voleva far vedere un disegno fatto ai soldati. Sono
entrato in casa sua e stavano preparando il tè – in questi posti
bevono un sacco di tè. Mi hanno invitato a sedermi, ho accettato,
capivo a stento le loro discussioni ma sentivo serenità in loro. Li
voglio aiutare ma non so ancora come.
Bevo spesso il cordiale che ci passa l'esercito,
ricordi quanto mi rimproveravi le sere che tornavo a casa un po'
brillo? Non ti preoccupare, ma qua serve per passare la notte e
comunque, avevo molti più sogni in quelle bevute che ora che la
bottiglietta è sempre vuota.
P.S vedrai che li riuscirò ad aiutare.
Ti bacio sulla bocca e non essere gelosa, se lo
faccio spesso anche alla vita.
Spero di riabbracciarti presto, con melanconico amore
tuo Gabriele.
Il caporale Furfaro Gabriele quella sera uscì
dalla base senza avvertire nessuno, erano le tre di notte ed il cielo
stellato illuminava debolmente la carreggiata che portava al
villaggio. Teneva in spalla il fucile d'ordinanza.
Ora gli era chiaro, c'era solo un modo per aiutare
quelle persone, quelle famiglie che gli erano state tanto ospitali,
quella gente non sarebbe mai potuta essere libera, ormai sia
l'America che l'Europa gli aveva addentato i fianchi, era impossibile
poter liberarsi da quella morsa.
Camminava tenendo lo sguardo basso, non aveva di che
aver timore, in fondo era lui il nemico, il cattivo. Si aggirava
ancora qualche ribelle nella zona ma non era quello luogo in cui
capitassero disgrazie, almeno dalla sponda sua.
Il cuore gli iniziò a battere furiosamente, non era
il capitano che incitava la carica ma, si rendeva conto ora del suo
folle gesto. La consapevolezza non bastò ad arrestarlo. Spalancò la
porta della casa con un calcio secco, nemmeno il tempo di osservare
bene che la canna del fucile si incendiò. Sparò una raffica di
qualche secondo, un colpo in successione all'altro. Sembrò, almeno
per qualche istante placarsi, ma si voltò verso la strada e fece
fuoco sulle persone che vide passare, stavano fuggendo dopo aver
sentito gli spari. Entrò ancora in un'altra abitazione, quella che
giorni prima gli aveva offerto il calore di un tè.
Gabriele sentiva freddo, sentiva le mani
informicolite, lui non era abituato a sparare eppure era riuscito ad
uccidere diciassette persone.
Le ho salvate si
ripeteva mentre tornava alla base, mentre
incrociò la camionetta di pattuglia che stava accorrendo sul posto.
Raccontò subito tutto, senza indugi, senza rimorsi.
Il sole era da poco sorto quando il caporale
Furfaro fu arrestato, si era costituito, non sarebbe potuto essere
padre, non essere marito; aveva scelto di essere un martire, lui
aveva salvato diciassette persone ed ora se ne andava sereno verso il
patibolo.
Racconto di Milos Fabbri
Racconto di Milos Fabbri
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