IL GRANDE LENZUOLO BIANCO
Era seduto sul divano, l'occhio aperto ma assente
guardava la televisione, spenta. Pensava.
Rimembrava quello che era successo il giorno passato,
quando, entrando nel condominio di via Taranto numero quattro, decise
di non prendere l'ascensore, ed arrivato al pianerottolo sottostante
il suo la incontrò.
Aveva le buste della spesa posate sulle piastrelle
fredde, e cercava la chiave dentro la borsetta. Notandolo, voltò lo
sguardo verso il rumore di passi che proveniva alle sue spalle. Lui
la vide e la seconda cosa che pensò fu: “ Non mi incazzerò più
nel sentire il rumore di tacchi al piano di sotto”. Si era
innamorato.
Aveva di fronte a sé un viso stupendo, lunghi capelli
neri, ricci, con due occhi grandi che lo stavano fissando, erano due
fessure spalancate sull'enormità del creato, e lui decise che ne
voleva fare parte. La prima cosa che notò furono quelle carnose
labbra, secche. Dipinte in maniera eccentrica. Due splendide corna si
elevavano al centro.
Passarono circa quattro secondi, lei tornò alla ricerca
delle chiavi d'accesso, lui non distogliendo lo sguardo da ciò che
avrebbe voluto al più presto diventasse un'abitudine vedere, si mise
alla ricerca di un varco. Doveva ad ogni costo entrare.
La ragazza dal vestito lungo, bianco, tappezzato di
solitudine, entrò in casa e si chiuse la porta, come di consueto,
alle spalle. Francesco, isolato nei suoi pensieri, non poté che
rinunciare all'immediato assalto e finì di salire l'ultima rampa di
scale entrando nel suo umile alloggio.
Entrò nello sgabuzzino, aprì più di un cassetto,
rovistò fra un sacco di cianfrusaglie fino a quando, finalmente,
trovò ciò che cercava.
Tornò fuori con in mano una corda.
Non era ancora sua intenzione togliersi la vita per
amore, e oltretutto nessuno avrebbe potuto testimoniare cotanta
devozione. Voleva celarsi e, calarsi, nei panni dell'amante
spericolato.
Legò la corda attorno ad un mobile, quello che gli
sembrava più resistente, cioè l'unico in quella stanza. Lo spinse
con forza fino a riuscire ad appoggiarlo al muro e gettò l'altro
capo della fune fuori nel vuoto.
Allungò lo sguardo verso la strada ma non vide la fine
della corda. Troppi alberi, troppe foglie, troppa smania di ultimare
il progetto. Mise i piedi sul cornicione, le mani strette alla fune e
si lasciò calare più dalla forza di gravità che dalla sua.
Raggiunse la finestra sottostante, quella della sua amata e la vide,
di spalle, seduta di fronte al computer. Rimase un poco ad
osservarla, la vide sorseggiare dal bicchiere ma poi, indolenzito
dalla fatica si accinse velocemente ad ultimare il suo piano. Tirò
fuori dal taschino il pennarello rosso che aveva ricordato di
prendere e scrisse sul vetro, in grande: BUON GIORNO CARO AMORE.
Marzia era seduta alla scrivania, erano le dieci
della sera e da molto tempo aveva smesso di piangere. Di solito si
metteva a letto presto, si stendeva, col cuscino sulle spalle, e
leggeva; finché il sonno non la portava via con sé. Quella sera
invece si era seduta davanti al computer, voleva scrivere una lettera
al padre; non tanto per chissà quale bisogno narrativo, non era
successo nulla di straordinario e quello, comunque, si sarebbe
esaurito con una telefonata. Marzia sentiva il bisogno di dirgli,
finalmente, quello che pensava, di fargli capire che sbagliava nel
credere di essere sempre nel giusto; la sua vita era stata come
quella della maggior parte dei suoi coetanei: sbagliata.
Sbagliata, con le migliori intenzioni, che quasi mai
bastano.
Marzia pensava che suo padre non aveva cresciuto bene la
figlia; che la moglie era una donna molto insoddisfatta e che lui
stesso, escludendo le menzogne di routine, era un uomo triste.
Non voleva fare gli stessi errori del padre ma sentiva
di avere il passo affaticato, aveva già intrapreso quella via.
Voleva scrivere una lettera o semplificare tutto in una frase:
“vaffanculo babbo”.
Quella sera era un mercoledì, forse, aveva
esagerato col vino; sentì un rumore alla finestra, ma non si voltò,
aveva dei pensieri nella testa; non è facile abusare, anche di se
stessi. Marzia, come suo padre, era una persona triste, seppur si
camuffava spesso in abbondanti risate. Lui, si nascondeva dietro la
sua autorità e qualche bicchiere di vino, lei rimaneva sola, nella
sua casa, a guardare fuori dalla finestra ad aspettare.
Erano le dieci della sera, si alzò dalla scrivania
ormai consapevole che non avrebbe scritto nulla di quello che pensava
a suo padre e si avvicinò alla finestra. Fuori era buio, chiuse la
tapparella senza accorgersi di nulla.
Il mattino seguente Francesco fu svegliato di
buon'ora da un insistente bussare alla porta. Non era convinto di
alzarsi ma poi, preso da una insolita forma di chiaroveggenza, si
alzò, scostò il grande lenzuolo bianco e si diresse ad aprire. Gli
balzò il cuore fuori dal petto, nel vedere, appena aperto, il viso
di Marzia sul suo uscio. Era lì, ferma, che lo guardava, teneva una
spugna in mano.
– Buon giorno anche a te; mi ha fatto molto piacere
questa mattina ricevere un così inaspettato augurio; ed ora eccoti
la spugna e vieni a pulire il vetro – il volto rimase per lo più
serio, ma sul finire gli concesse di vedere un'altra delle sue
meraviglie: il sorriso.
– Scusa – la fermò curioso Francesco – ma è
grazie al tuo intuito femminile, che hai dedotto di dover salire a
questo piano, o è stato il calore del mio amore? – chiese
divertito Francesco.
– Hai dimenticato la corda appesa, vieni ché il
caffè si raffredda – e senza attendere oltre scese giù dalle
scale.
Francesco non era più molto lucido, era successo tutto
troppo velocemente per le sue abitudini. A lui piaceva procedere con
calma, ma ora non gli importava; scese di corsa le scale e quasi
cadde, dopo pochi gradini, per aver perso l'equilibrio. Aveva chiuso
la porta di casa senza aver preso le chiavi, si guardò velocemente
gli abiti, era in pigiama. Continuò a scendere le scale non curante
di questi piccoli dettagli e bussò, prima di entrare in casa di
Marzia.
Chiese – permesso – e si diresse in cucina seguendo
l'odore. Lei se ne stava in piedi con la moca in mano versando in due
tazzine colorate il caffè.
Marzia indossava un abito lungo scuro con dei piccoli
fiori disegnati, aveva i capelli ordinati, ricci e le sue bellissime
labbra carnose, secche. I seni, piccoli.
– Accomodati, quanto zucchero?
– Niente grazie, c'è già la vita che è tanto
dolce per cui compenso.
Marzia fece un sorriso e posò la tazzina sul tavolo,
poi si sedette fianco al nuovo amico.
– Deve essere stato abbastanza pericoloso calarsi
giù fino alla mia finestra? - chiese sempre sorridente Marzia.
La cucina era una piccola stanza, stretta e lunga
proprio come quella dove cenava ogni giorno Francesco, ma questa era
decisamente più accogliente, sarà stato forse per la tinteggiatura
gialla che dava più luce o più semplicemente era Marzia che
rendeva, ora, tutto più bello agli occhi innamorati di Francesco.
– Beh, come puoi ricordare, quando si è persi
d'amore ogni sforzo è piacere e ti dirò che è stata una fortuna
che abbia dimenticato la corda appesa, non ho preso le chiavi per
rientrare in casa, dovrò passare dalla finestra.
Marzia si alzò e mise le tazzine nel lavandino
poi, scostandosi i capelli dal viso gli disse che si doveva
preparare, doveva andare al lavoro. Francesco si offrì di
accompagnarla, voleva stare ancora in sua compagnia, ma Marzia gli
disse che lavorava alla libreria giù in fondo alla strada a piazza
re di Roma, non ne valeva la pena; secondo lei.
Accompagnò il funambolo alla finestra della camera da
letto, l'aprì e lo salutò posandogli le labbra sulla guancia. Quel
contatto tramortì del tutto Francesco, il suo animo fu pervaso dal
silenzio che solo un'abbondante nevicata può lasciare. Risalì a
fatica la corda e si lasciò cadere sul divano una volta salvo.
Si assopì contento, lasciò divagare i suoi pensieri
nelle fantasie più creative, poi, li chiamò tutti a rapporto e
solo a lei si volle dedicare.
Uscì in strada, raggiunse la piazza, cercò la
libreria e si allontanò. Entrò nel primo fioraio che vide e ordinò
un grande mazzo di fiori – da consegnare a quella libreria, alla
commessa. Scrisse il biglietto ed aggiunse sul fondo il suo numero
di telefono, sorrise e andò a sedere sulla panchina nel parco.
Attese, attese, fino a quando il cellulare suonò
l'arrivo di un messaggio.
All'ultimo
dei romantici che ho avuto la fortuna d'incontrare: "grazie,
adoro i fiori e le Fresie sono i miei fiori preferiti!... ma da quale
pianeta sei venuto? Sarà che è lo stesso dal quale sono caduta io e
del quale non ricordo più il nome?... Baci".
Ora sì che Francesco era agitato, quasi gli cadde il
cellulare dalle mani tremanti e, tolto il quasi, si ritrovò a terra
per recuperare tutti e tre i pezzi che si erano divisi e sparsi
sull'erba.
Venne la sera quasi all'improvviso; e sí
che c'era abituato a questi giochetti, erano ben trentaquattro anni
che qualcuno ad un certo punto gli spegneva la luce, e tutto si
faceva buio; ancora non aveva colto il responsabile. Francesco era in
casa, aveva finito di cenare ma non si dava pace; sentiva sotto di
lui i suoi passi e non resisteva, la voleva vedere, toccare,
abbracciare. Decise di sedersi su una nuvola con lei a guardare una
pioggia di coriandoli. Si attrezzò e scese di un pianerottolo, dalle
scale. Suonò il campanello ed attese pochi istanti prima che si
presentò lei ad aprirgli. Era bellissima, in abito bianco; lo
guardava coi suoi occhi castani, (quelli aveva) e le sue labbra
aride, era stupita, non tanto perché... ma perché teneva stretto
sotto il braccio un cuscino azzurro con delle nuvole disegnate e in
una mano un sacchetto di coriandoli.
Si accomodò.
Marzia lo fece sedere a terra, su un tappeto tondo dove
c'era, al centro, un tavolino in legno intagliato. Francesco posò il
cuscino a terra e invitò Marzia a sedercisi sopra insieme a lui. Lei
obbedì, serena e divertita, poi aprì il sacchetto ed entrambi
cominciarono a gettarli in aria provocando così, una pioggia di
piccoli pezzi di carta colorata.
Finiti i coriandoli, i volti si incontrarono in sguardi
divertiti, Marzia fece per alzarsi ma si fermò in ginocchio di
fronte a lui, sentiva il suo respiro accelerato, il suo profumo di
sandalo e tutto le piacque. Gli dette un bacio, delicato, sulle
labbra e si alzò. Tornò dalla cucina con in mano una scopa – bene
– gli disse fissandolo – ora puoi pulire tutto.
Risero, anche Francesco si alzò e l'andò ad
abbracciare. Si baciarono con passione e mentre lui la stava
stendendo sul divano alzandole il vestito e toccandole le cosce fino
all'inguine, squillò il telefono. Lui non voleva che rispondesse,
sentiva già il suo calore sui polpastrelli, ma lei lo scostò
dolcemente per recuperare il cellulare.
Erano le dieci della sera, sullo schermo del
telefono di Marzia apparve la scritta babbo, rispose.
"Ho
ucciso tua madre, ed ora me ne vado anch'io, ciao."
Rimase
impietrita, non ebbe il tempo di dire nulla, la conversazione era
finita. Provò a richiamarlo ma non rispose, il telefono suonava a
vuoto.
Marzia
era immobilizzata, Francesco le si avvicinò poggiando le mani sulle
sue spalle e sentiva qualcosa di diverso in lei, era fredda; le
chiese cosa fosse successo, gli si pose di fronte e cercava il suo
sguardo, ma non lo trovò. Non rivide più quello sguardo, quegli
occhi che lo fecero innamorare, per parecchio tempo.
I
carabinieri chiamarono qualche ora dopo, gli dissero che doveva
recarsi a Genova per il riconoscimento dei corpi; i suoi genitori si
erano gettati dal balcone.
Passarono
i giorni, la disperazione nel cuore di Marzia aumentava, non mangiava
più, non usciva e pure Francesco fu allontanato dalla sua vita,
nonostante cercasse di aiutarla e consolarla. I vicini chiamarono più
volte i carabinieri, sia per la puzza dell'immondizia che giaceva
inerte sul pianerottolo sia per una strana invidia per chi sta male.
L'ammonirono, la multarono fino al giorno in cui si presentarono a
casa sua con al seguito un medico. Bisognava verificare lo stato
mentale della ragazza. Quel giorno, mentre i tutori della legge
suonavano al campanello, passò pure Francesco che curioso si fermò
a vedere. Marzia aprì, non capiva il perché della visita, ma non
voleva nessuno in casa sua. Li mandò via. Si accorse prima di
richiudere la porta che poggiato sul muro del pianerottolo c'era
Francesco, gli fece un segno impercettibile del capo e lui, facendosi
spazio rientrò dopo settimane nel mondo che ben presto devastò le
vite di entrambi.
Marzia
rimase tutta la notte col viso poggiato sulle cosce di Francesco,
fino all'ora in cui suonarono alla porta. Era l'una del mattino del
tredici giugno, i due ancora assonnati si guardarono, c'era stupore
nei loro sguardi. Chi poteva essere? Non fecero in tempo ad aprire la
porta che due uomini entrati dal balcone presero Marzia per le
braccia e si avviarono verso l'uscio. Francesco fece per scansarli ma
finì tramortito sul divano. Vide, dal pianerottolo, che riscendevano
le scale, le stesse persone del pomeriggio, gli stessi carabinieri.
Mi
portarono in ospedale e fui sottoposta a una serie di insensate
domande, ero infastidita, chiesi un bicchiere d'acqua. Nessuno
parlava realmente con me, era come se non fossi in quella stanza, mi
consideravano stupida. Alla quarta volta, arrivò un bicchiere
d'acqua. La misi in bocca e li innaffiai tutti.
Mi
riempirono di farmaci e mi misero nel letto di contenzione. Avevo
trentacinque anni, ed entrai nell'inferno dei dimenticati. Fui
internata.
Quando
entrai all'ospedale psichiatrico giudiziario ebbi una strana
certezza, non sarei riuscita ad uscirne sana.
Mentre
percorrevo il lungo corridoio, la prima cosa che mi accolse fu la
puzza di urina che proveniva da ovunque. La seconda, il freddo, del
letto in ferro senza lenzuola, senza nulla, tranne il mio corpo nudo,
che ora andavo a ricoprire. Mi legarono con delle bende al letto ed
uscirono dalla stanza, rimasi sola e tornai dopo lungo tempo a
piangere.
Non
capivo, non sapevo perché ero in quel luogo; certo qualche problema
dopo lo scomparsa dei miei genitori mi era venuto, ma nulla da
dovermi rinchiudere in quel luogo.
Passarono
le ore, ero legata a quel letto senza che avessi fatto nulla di
grave, senza che nessuno mi avesse spiegato cosa stesse succedendo.
Dovevo fare pipì, chiamai più volte gli inservienti quando,
finalmente, un uomo grasso e calvo si decise ad aprire la porta; gli
dissi che dovevo andare in bagno ma mi rispose che potevo
tranquillamente farmela addosso. Ero esterrefatta, avevo la forza di
alzarmi, perché dovevo rimanere lì, legata e pisciarmi addosso?
L'uomo
mi si avvicinò, si slacciò i pantaloni e dopo aver tirato fuori il
pene si masturbò sul mio corpo.
Non
riuscivo a dormire, ero stanca, ma il sonno mi spaventava. Rimanevo
ferma, nuda, la notte sentivo un po' di freddo ma non mi davano nulla
per coprirmi. Passai svariate notti a pensare a Francesco, la mia
vita stava prendendo un buon passo e proprio mentre stavo tornando ad
essere felice, tutto era crollato.
Mi
slegarono sette giorni dopo, avevo pisciato e cagato nel buco che
c'era al centro del letto e che finiva in un altro buco sul
pavimento. Mi gettarono le mutandine sul seno e m'accompagnarono in
stanza.
Insieme
a me c'era un'altra ragazza, molto giovane, scarna, in mutande. Era
seduta a terra e guardava in basso. Non alzò lo sguardo nemmeno
quando la porta si aprì ed io mi misi stesa sul letto, gettandomi
addosso un grande lenzuolo bianco. Per un'ora al giorno io e Anna
uscivamo all'aria. Camminavamo in tondo percorrendo il perimetro del
cortile. Anna era stata trasferita da poco, era stata tre anni a
Civitavecchia nel centro di cura mentale e solo da poche settimane si
trovava qui a Montelupo. Era depressa. Per colpa della madre si
trovava internata. La mamma, preoccupata dalla vita sociale di Anna,
che tornava la sera tardi ed usciva tutti i giorni, la fece visitare
dalla propria dottoressa, una visita di controllo – mentale. Fu
rinchiusa. Anna era stata adottata all'età di sette anni e si era
trasferita a Torino con la nuova famiglia. Fino a quel giorno pensava
di essere stata accettata.
Un
pomeriggio, con il sole che faticava ad affacciarsi sul cortile, fui
chiamata da un inserviente, avevo una visita. Non sapevo chi potesse
essere, ma quando mi misi seduta poggiando i gomiti al tavolino con
gli occhi chiusi fra le mani e pensai, sperai tanto che fosse lui. Mi
poggiò la mano sui capelli e mi accarezzo, piansi. Erano mesi che
non avevo un gesto d'affetto. Francesco si mise seduto al mio fianco
e mi prese la mano. Mi disse che stava facendo tutto il possibile per
farmi uscire, aveva contattato un suo amico avvocato e gli aveva
posto il caso. C'erano buone speranze. Io lo guardavo senza stare
troppo a sentirlo, ero contenta che fosse qui, che io ancora facessi
parte della sua vita. Trascorsero veloci i venti minuti a
disposizione, ci alzammo e ci salutammo. Mi abbracciò con forza e mi
disse sussurrando, di guardare spesso dalla finestra, lui era là
fuori che mi aspettava.
Una
mattina mi svegliai sudata, gli occhi faticavano ad aprirsi, era
umido; mi guardai attorno in cerca del solito nulla ed invece trovai
Anna strangolata con le sue mutandine a righe. Strillai.
Chiamai
aiuto ma nessuno veniva, trascorse parecchio tempo prima che si
affacciasse un operatore.
Rimasi
sola nella stanza, spaventata.
Non
volevo perdermi, arrendermi e mi rifugiai nella poesia, come spesso
mi capitava nei momenti difficili. La porta di quella stanza, che era
prigione, fu poesia; il fetore di piscio, che quasi più non sentivo,
fu poesia; ed il mio corpo, nudo e scarno, divenne poesia. A volte
cadevo e posavo i palmi sul pavimento ma poi, mi alzavo e sognavo,
c'era pur sempre un uomo, là fuori, ad aspettarmi.
Uscii
dall'ospedale psichiatrico che avevo quarantasei anni.
Era
il quattordici gennaio quando Francesco con largo anticipo raggiunse
via Pasquale Saviotti e parcheggiò di fronte all'entrata. Nevicava.
Si mise comodo ed aspettò.
Marzia
si era vestita, e già questo era una novità, percorse il lungo
corridoio con sguardo fermo. Una donna le allungò un sacchetto con
dentro le sue cose, attraversò il cortile e si lasciò incantare
dalla neve che scendeva. Guardava i rami degli alberi, la neve che ne
abbondava e in quel momento capì di avercela fatta, non si era
mescolata con gli altri.
Come
neve
posata
sul ramo
quando
troppo abbonda
cade
lentamente a terra
confondendosi
al
manto bianco che tutto ricopre.
Le
aprirono la porta e senza salutare, uscì. Francesco era uscito
dall'auto e si precipitò verso di lei, lo aveva aspettato.
L'abbracciò,
le baciò le dolci labbra secche, e se ne andarono insieme come due
funamboli in equilibrio fra la realtà e i loro sogni.
edito in UNA NUOVA VITA, ArduinoSaccoEditore 2013
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