sabato 6 settembre 2014

IL GRANDE LENZUOLO BIANCO




IL GRANDE LENZUOLO BIANCO




   Era seduto sul divano, l'occhio aperto ma assente guardava la televisione, spenta. Pensava.
Rimembrava quello che era successo il giorno passato, quando, entrando nel condominio di via Taranto numero quattro, decise di non prendere l'ascensore, ed arrivato al pianerottolo sottostante il suo la incontrò.
Aveva le buste della spesa posate sulle piastrelle fredde, e cercava la chiave dentro la borsetta. Notandolo, voltò lo sguardo verso il rumore di passi che proveniva alle sue spalle. Lui la vide e la seconda cosa che pensò fu: “ Non mi incazzerò più nel sentire il rumore di tacchi al piano di sotto”. Si era innamorato.
Aveva di fronte a sé un viso stupendo, lunghi capelli neri, ricci, con due occhi grandi che lo stavano fissando, erano due fessure spalancate sull'enormità del creato, e lui decise che ne voleva fare parte. La prima cosa che notò furono quelle carnose labbra, secche. Dipinte in maniera eccentrica. Due splendide corna si elevavano al centro.
Passarono circa quattro secondi, lei tornò alla ricerca delle chiavi d'accesso, lui non distogliendo lo sguardo da ciò che avrebbe voluto al più presto diventasse un'abitudine vedere, si mise alla ricerca di un varco. Doveva ad ogni costo entrare.
La ragazza dal vestito lungo, bianco, tappezzato di solitudine, entrò in casa e si chiuse la porta, come di consueto, alle spalle. Francesco, isolato nei suoi pensieri, non poté che rinunciare all'immediato assalto e finì di salire l'ultima rampa di scale entrando nel suo umile alloggio.
Il divano era comodo, ma non riusciva a restare seduto, pensava ai suoi occhi, alle sue aride labbra, ne aveva bisogno. Voleva accarezzarle i capelli, entrarle sotto il vestito, voleva capire, se necessario, chi fosse e mostrarle il suo paradiso. Camminava, Francesco, nervoso per la stanza; la sentiva, riconosceva lo sciacquone del bagno che veniva tirato, gli stivali tolti in camera da letto e si immaginava che ormai il suo corpo venisse accarezzato da un pigiama in cotone che raffigurava due topolini grigi. Francesco non ce la fece più e decise.
Entrò nello sgabuzzino, aprì più di un cassetto, rovistò fra un sacco di cianfrusaglie fino a quando, finalmente, trovò ciò che cercava.
Tornò fuori con in mano una corda.
Non era ancora sua intenzione togliersi la vita per amore, e oltretutto nessuno avrebbe potuto testimoniare cotanta devozione. Voleva celarsi e, calarsi, nei panni dell'amante spericolato.
Legò la corda attorno ad un mobile, quello che gli sembrava più resistente, cioè l'unico in quella stanza. Lo spinse con forza fino a riuscire ad appoggiarlo al muro e gettò l'altro capo della fune fuori nel vuoto.
Allungò lo sguardo verso la strada ma non vide la fine della corda. Troppi alberi, troppe foglie, troppa smania di ultimare il progetto. Mise i piedi sul cornicione, le mani strette alla fune e si lasciò calare più dalla forza di gravità che dalla sua. Raggiunse la finestra sottostante, quella della sua amata e la vide, di spalle, seduta di fronte al computer. Rimase un poco ad osservarla, la vide sorseggiare dal bicchiere ma poi, indolenzito dalla fatica si accinse velocemente ad ultimare il suo piano. Tirò fuori dal taschino il pennarello rosso che aveva ricordato di prendere e scrisse sul vetro, in grande: BUON GIORNO CARO AMORE.


   Marzia era seduta alla scrivania, erano le dieci della sera e da molto tempo aveva smesso di piangere. Di solito si metteva a letto presto, si stendeva, col cuscino sulle spalle, e leggeva; finché il sonno non la portava via con sé. Quella sera invece si era seduta davanti al computer, voleva scrivere una lettera al padre; non tanto per chissà quale bisogno narrativo, non era successo nulla di straordinario e quello, comunque, si sarebbe esaurito con una telefonata. Marzia sentiva il bisogno di dirgli, finalmente, quello che pensava, di fargli capire che sbagliava nel credere di essere sempre nel giusto; la sua vita era stata come quella della maggior parte dei suoi coetanei: sbagliata.
Sbagliata, con le migliori intenzioni, che quasi mai bastano.
Marzia pensava che suo padre non aveva cresciuto bene la figlia; che la moglie era una donna molto insoddisfatta e che lui stesso, escludendo le menzogne di routine, era un uomo triste.
Non voleva fare gli stessi errori del padre ma sentiva di avere il passo affaticato, aveva già intrapreso quella via. Voleva scrivere una lettera o semplificare tutto in una frase: “vaffanculo babbo”.
Quella sera era un mercoledì, forse, aveva esagerato col vino; sentì un rumore alla finestra, ma non si voltò, aveva dei pensieri nella testa; non è facile abusare, anche di se stessi. Marzia, come suo padre, era una persona triste, seppur si camuffava spesso in abbondanti risate. Lui, si nascondeva dietro la sua autorità e qualche bicchiere di vino, lei rimaneva sola, nella sua casa, a guardare fuori dalla finestra ad aspettare.
Erano le dieci della sera, si alzò dalla scrivania ormai consapevole che non avrebbe scritto nulla di quello che pensava a suo padre e si avvicinò alla finestra. Fuori era buio, chiuse la tapparella senza accorgersi di nulla.


  Il mattino seguente Francesco fu svegliato di buon'ora da un insistente bussare alla porta. Non era convinto di alzarsi ma poi, preso da una insolita forma di chiaroveggenza, si alzò, scostò il grande lenzuolo bianco e si diresse ad aprire. Gli balzò il cuore fuori dal petto, nel vedere, appena aperto, il viso di Marzia sul suo uscio. Era lì, ferma, che lo guardava, teneva una spugna in mano.
Buon giorno anche a te; mi ha fatto molto piacere questa mattina ricevere un così inaspettato augurio; ed ora eccoti la spugna e vieni a pulire il vetro – il volto rimase per lo più serio, ma sul finire gli concesse di vedere un'altra delle sue meraviglie: il sorriso.
Scusa – la fermò curioso Francesco – ma è grazie al tuo intuito femminile, che hai dedotto di dover salire a questo piano, o è stato il calore del mio amore? – chiese divertito Francesco.
Hai dimenticato la corda appesa, vieni ché il caffè si raffredda – e senza attendere oltre scese giù dalle scale.
Francesco non era più molto lucido, era successo tutto troppo velocemente per le sue abitudini. A lui piaceva procedere con calma, ma ora non gli importava; scese di corsa le scale e quasi cadde, dopo pochi gradini, per aver perso l'equilibrio. Aveva chiuso la porta di casa senza aver preso le chiavi, si guardò velocemente gli abiti, era in pigiama. Continuò a scendere le scale non curante di questi piccoli dettagli e bussò, prima di entrare in casa di Marzia.
Chiese – permesso – e si diresse in cucina seguendo l'odore. Lei se ne stava in piedi con la moca in mano versando in due tazzine colorate il caffè.
Marzia indossava un abito lungo scuro con dei piccoli fiori disegnati, aveva i capelli ordinati, ricci e le sue bellissime labbra carnose, secche. I seni, piccoli.
Accomodati, quanto zucchero?
Niente grazie, c'è già la vita che è tanto dolce per cui compenso.
Marzia fece un sorriso e posò la tazzina sul tavolo, poi si sedette fianco al nuovo amico. 
Deve essere stato abbastanza pericoloso calarsi giù fino alla mia finestra? - chiese sempre sorridente Marzia.
La cucina era una piccola stanza, stretta e lunga proprio come quella dove cenava ogni giorno Francesco, ma questa era decisamente più accogliente, sarà stato forse per la tinteggiatura gialla che dava più luce o più semplicemente era Marzia che rendeva, ora, tutto più bello agli occhi innamorati di Francesco. 
Beh, come puoi ricordare, quando si è persi d'amore ogni sforzo è piacere e ti dirò che è stata una fortuna che abbia dimenticato la corda appesa, non ho preso le chiavi per rientrare in casa, dovrò passare dalla finestra.
  Marzia si alzò e mise le tazzine nel lavandino poi, scostandosi i capelli dal viso gli disse che si doveva preparare, doveva andare al lavoro. Francesco si offrì di accompagnarla, voleva stare ancora in sua compagnia, ma Marzia gli disse che lavorava alla libreria giù in fondo alla strada a piazza re di Roma, non ne valeva la pena; secondo lei.
Accompagnò il funambolo alla finestra della camera da letto, l'aprì e lo salutò posandogli le labbra sulla guancia. Quel contatto tramortì del tutto Francesco, il suo animo fu pervaso dal silenzio che solo un'abbondante nevicata può lasciare. Risalì a fatica la corda e si lasciò cadere sul divano una volta salvo.
Si assopì contento, lasciò divagare i suoi pensieri nelle fantasie più creative, poi, li chiamò tutti a rapporto e solo a lei si volle dedicare.
Uscì in strada, raggiunse la piazza, cercò la libreria e si allontanò. Entrò nel primo fioraio che vide e ordinò un grande mazzo di fiori – da consegnare a quella libreria, alla commessa. Scrisse il biglietto ed aggiunse sul fondo il suo numero di telefono, sorrise e andò a sedere sulla panchina nel parco.
  Attese, attese, fino a quando il cellulare suonò l'arrivo di un messaggio.
All'ultimo dei romantici che ho avuto la fortuna d'incontrare: "grazie, adoro i fiori e le Fresie sono i miei fiori preferiti!... ma da quale pianeta sei venuto? Sarà che è lo stesso dal quale sono caduta io e del quale non ricordo più il nome?... Baci".

Ora sì che Francesco era agitato, quasi gli cadde il cellulare dalle mani tremanti e, tolto il quasi, si ritrovò a terra per recuperare tutti e tre i pezzi che si erano divisi e sparsi sull'erba.

Venne la sera quasi all'improvviso; e sí che c'era abituato a questi giochetti, erano ben trentaquattro anni che qualcuno ad un certo punto gli spegneva la luce, e tutto si faceva buio; ancora non aveva colto il responsabile. Francesco era in casa, aveva finito di cenare ma non si dava pace; sentiva sotto di lui i suoi passi e non resisteva, la voleva vedere, toccare, abbracciare. Decise di sedersi su una nuvola con lei a guardare una pioggia di coriandoli. Si attrezzò e scese di un pianerottolo, dalle scale. Suonò il campanello ed attese pochi istanti prima che si presentò lei ad aprirgli. Era bellissima, in abito bianco; lo guardava coi suoi occhi castani, (quelli aveva) e le sue labbra aride, era stupita, non tanto perché... ma perché teneva stretto sotto il braccio un cuscino azzurro con delle nuvole disegnate e in una mano un sacchetto di coriandoli.
Si accomodò.
Marzia lo fece sedere a terra, su un tappeto tondo dove c'era, al centro, un tavolino in legno intagliato. Francesco posò il cuscino a terra e invitò Marzia a sedercisi sopra insieme a lui. Lei obbedì, serena e divertita, poi aprì il sacchetto ed entrambi cominciarono a gettarli in aria provocando così, una pioggia di piccoli pezzi di carta colorata.
Finiti i coriandoli, i volti si incontrarono in sguardi divertiti, Marzia fece per alzarsi ma si fermò in ginocchio di fronte a lui, sentiva il suo respiro accelerato, il suo profumo di sandalo e tutto le piacque. Gli dette un bacio, delicato, sulle labbra e si alzò. Tornò dalla cucina con in mano una scopa – bene – gli disse fissandolo – ora puoi pulire tutto.
Risero, anche Francesco si alzò e l'andò ad abbracciare. Si baciarono con passione e mentre lui la stava stendendo sul divano alzandole il vestito e toccandole le cosce fino all'inguine, squillò il telefono. Lui non voleva che rispondesse, sentiva già il suo calore sui polpastrelli, ma lei lo scostò dolcemente per recuperare il cellulare.


  Erano le dieci della sera, sullo schermo del telefono di Marzia apparve la scritta babbo, rispose.

"Ho ucciso tua madre, ed ora me ne vado anch'io, ciao."

  Rimase impietrita, non ebbe il tempo di dire nulla, la conversazione era finita. Provò a richiamarlo ma non rispose, il telefono suonava a vuoto.
Marzia era immobilizzata, Francesco le si avvicinò poggiando le mani sulle sue spalle e sentiva qualcosa di diverso in lei, era fredda; le chiese cosa fosse successo, gli si pose di fronte e cercava il suo sguardo, ma non lo trovò. Non rivide più quello sguardo, quegli occhi che lo fecero innamorare, per parecchio tempo.
I carabinieri chiamarono qualche ora dopo, gli dissero che doveva recarsi a Genova per il riconoscimento dei corpi; i suoi genitori si erano gettati dal balcone.
Passarono i giorni, la disperazione nel cuore di Marzia aumentava, non mangiava più, non usciva e pure Francesco fu allontanato dalla sua vita, nonostante cercasse di aiutarla e consolarla. I vicini chiamarono più volte i carabinieri, sia per la puzza dell'immondizia che giaceva inerte sul pianerottolo sia per una strana invidia per chi sta male. L'ammonirono, la multarono fino al giorno in cui si presentarono a casa sua con al seguito un medico. Bisognava verificare lo stato mentale della ragazza. Quel giorno, mentre i tutori della legge suonavano al campanello, passò pure Francesco che curioso si fermò a vedere. Marzia aprì, non capiva il perché della visita, ma non voleva nessuno in casa sua. Li mandò via. Si accorse prima di richiudere la porta che poggiato sul muro del pianerottolo c'era Francesco, gli fece un segno impercettibile del capo e lui, facendosi spazio rientrò dopo settimane nel mondo che ben presto devastò le vite di entrambi.
Marzia rimase tutta la notte col viso poggiato sulle cosce di Francesco, fino all'ora in cui suonarono alla porta. Era l'una del mattino del tredici giugno, i due ancora assonnati si guardarono, c'era stupore nei loro sguardi. Chi poteva essere? Non fecero in tempo ad aprire la porta che due uomini entrati dal balcone presero Marzia per le braccia e si avviarono verso l'uscio. Francesco fece per scansarli ma finì tramortito sul divano. Vide, dal pianerottolo, che riscendevano le scale, le stesse persone del pomeriggio, gli stessi carabinieri.


  Mi portarono in ospedale e fui sottoposta a una serie di insensate domande, ero infastidita, chiesi un bicchiere d'acqua. Nessuno parlava realmente con me, era come se non fossi in quella stanza, mi consideravano stupida. Alla quarta volta, arrivò un bicchiere d'acqua. La misi in bocca e li innaffiai tutti.
Mi riempirono di farmaci e mi misero nel letto di contenzione. Avevo trentacinque anni, ed entrai nell'inferno dei dimenticati. Fui internata.
Quando entrai all'ospedale psichiatrico giudiziario ebbi una strana certezza, non sarei riuscita ad uscirne sana.
Mentre percorrevo il lungo corridoio, la prima cosa che mi accolse fu la puzza di urina che proveniva da ovunque. La seconda, il freddo, del letto in ferro senza lenzuola, senza nulla, tranne il mio corpo nudo, che ora andavo a ricoprire. Mi legarono con delle bende al letto ed uscirono dalla stanza, rimasi sola e tornai dopo lungo tempo a piangere.
Non capivo, non sapevo perché ero in quel luogo; certo qualche problema dopo lo scomparsa dei miei genitori mi era venuto, ma nulla da dovermi rinchiudere in quel luogo.
Passarono le ore, ero legata a quel letto senza che avessi fatto nulla di grave, senza che nessuno mi avesse spiegato cosa stesse succedendo. Dovevo fare pipì, chiamai più volte gli inservienti quando, finalmente, un uomo grasso e calvo si decise ad aprire la porta; gli dissi che dovevo andare in bagno ma mi rispose che potevo tranquillamente farmela addosso. Ero esterrefatta, avevo la forza di alzarmi, perché dovevo rimanere lì, legata e pisciarmi addosso?
L'uomo mi si avvicinò, si slacciò i pantaloni e dopo aver tirato fuori il pene si masturbò sul mio corpo.
Non riuscivo a dormire, ero stanca, ma il sonno mi spaventava. Rimanevo ferma, nuda, la notte sentivo un po' di freddo ma non mi davano nulla per coprirmi. Passai svariate notti a pensare a Francesco, la mia vita stava prendendo un buon passo e proprio mentre stavo tornando ad essere felice, tutto era crollato.
Mi slegarono sette giorni dopo, avevo pisciato e cagato nel buco che c'era al centro del letto e che finiva in un altro buco sul pavimento. Mi gettarono le mutandine sul seno e m'accompagnarono in stanza.
Insieme a me c'era un'altra ragazza, molto giovane, scarna, in mutande. Era seduta a terra e guardava in basso. Non alzò lo sguardo nemmeno quando la porta si aprì ed io mi misi stesa sul letto, gettandomi addosso un grande lenzuolo bianco. Per un'ora al giorno io e Anna uscivamo all'aria. Camminavamo in tondo percorrendo il perimetro del cortile. Anna era stata trasferita da poco, era stata tre anni a Civitavecchia nel centro di cura mentale e solo da poche settimane si trovava qui a Montelupo. Era depressa. Per colpa della madre si trovava internata. La mamma, preoccupata dalla vita sociale di Anna, che tornava la sera tardi ed usciva tutti i giorni, la fece visitare dalla propria dottoressa, una visita di controllo – mentale. Fu rinchiusa. Anna era stata adottata all'età di sette anni e si era trasferita a Torino con la nuova famiglia. Fino a quel giorno pensava di essere stata accettata.
Un pomeriggio, con il sole che faticava ad affacciarsi sul cortile, fui chiamata da un inserviente, avevo una visita. Non sapevo chi potesse essere, ma quando mi misi seduta poggiando i gomiti al tavolino con gli occhi chiusi fra le mani e pensai, sperai tanto che fosse lui. Mi poggiò la mano sui capelli e mi accarezzo, piansi. Erano mesi che non avevo un gesto d'affetto. Francesco si mise seduto al mio fianco e mi prese la mano. Mi disse che stava facendo tutto il possibile per farmi uscire, aveva contattato un suo amico avvocato e gli aveva posto il caso. C'erano buone speranze. Io lo guardavo senza stare troppo a sentirlo, ero contenta che fosse qui, che io ancora facessi parte della sua vita. Trascorsero veloci i venti minuti a disposizione, ci alzammo e ci salutammo. Mi abbracciò con forza e mi disse sussurrando, di guardare spesso dalla finestra, lui era là fuori che mi aspettava.
Una mattina mi svegliai sudata, gli occhi faticavano ad aprirsi, era umido; mi guardai attorno in cerca del solito nulla ed invece trovai Anna strangolata con le sue mutandine a righe. Strillai.
Chiamai aiuto ma nessuno veniva, trascorse parecchio tempo prima che si affacciasse un operatore.
Rimasi sola nella stanza, spaventata.
Non volevo perdermi, arrendermi e mi rifugiai nella poesia, come spesso mi capitava nei momenti difficili. La porta di quella stanza, che era prigione, fu poesia; il fetore di piscio, che quasi più non sentivo, fu poesia; ed il mio corpo, nudo e scarno, divenne poesia. A volte cadevo e posavo i palmi sul pavimento ma poi, mi alzavo e sognavo, c'era pur sempre un uomo, là fuori, ad aspettarmi.
Uscii dall'ospedale psichiatrico che avevo quarantasei anni.


  Era il quattordici gennaio quando Francesco con largo anticipo raggiunse via Pasquale Saviotti e parcheggiò di fronte all'entrata. Nevicava. Si mise comodo ed aspettò.
Marzia si era vestita, e già questo era una novità, percorse il lungo corridoio con sguardo fermo. Una donna le allungò un sacchetto con dentro le sue cose, attraversò il cortile e si lasciò incantare dalla neve che scendeva. Guardava i rami degli alberi, la neve che ne abbondava e in quel momento capì di avercela fatta, non si era mescolata con gli altri.

Come neve
posata sul ramo
quando troppo abbonda
cade lentamente a terra
confondendosi
al manto bianco che tutto ricopre.

Le aprirono la porta e senza salutare, uscì. Francesco era uscito dall'auto e si precipitò verso di lei, lo aveva aspettato.
L'abbracciò, le baciò le dolci labbra secche, e se ne andarono insieme come due funamboli in equilibrio fra la realtà e i loro sogni.






edito in UNA NUOVA VITA, ArduinoSaccoEditore 2013



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