domenica 14 giugno 2015
domenica 7 giugno 2015
Thomas Mann
Come diventare scrittori? Se lo chiedessimo a Thomas Mann,
ci risponderebbe con il consueto garbo ed esattezza, cercando di
trovare le parole che possano descrivere al meglio l’alchimia delle sue
creazioni. Ci direbbe che lo scrittore “findet und nicht erfindet”, ossia “trova e non inventa”[1].
L’ispirazione non è un segnale divino che tocca l’artista come
un’epifania, ma lo scrittore è un attento osservatore e null’altro.
Tutto ciò di cui ha bisogno è già dato, esiste intorno a lui, l’abilità è
nel distillare il giusto composto.
Critici letterari, editor, agenti, scuole di scrittura, tutti son pronti a srotolare decaloghi di regole da rispettare per essere pubblicati e acquistati.
Leggere, certo, è importante per ogni autore che si rispetti, conoscere
la grammatica non sarebbe cosa sgradita, scrivere di temi attuali e
ampiamente conosciuti potrebbe giovare. Usare una lingua semplice senza
che sia banale, innovare e sorprendere senza doverlo fare a tutti i
costi. Lasciar sedimentare una pagina scritta per un po’ per poi
rileggerla a voce alta e scoprire così quanto ancora debba essere
rilavorata. E potrei continuare per decine di righe.
Molti sono consigli giusti,
attenzione a confondere l’essere scrittori con il venir pubblicati,
acquistati e letti. Questo errore Thomas Mann ha cercato di non farlo,
per principio (e allora seguire i propri principi non era segno di stupidità),
sebbene come ogni scrittore ha dovuto cedere a qualche compromesso per
offrire alla sua opera l’opportunità di essere letta. La casa editrice
Il Saggiatore ha ripubblicato a dicembre la raccolta epistolare che ha
unito, per un trentennio, uno dei più grandi romanzieri del Novecento
(Thomas Mann) con la sua traduttrice italiana per eccellenza (Lavinia
Mazzucchetti).
La raccolta ristampata con il titolo assai suggestivo La gioia maiuscola di essere scrittori ripresenta
al lettore il fitto scambio (allora d’obbligo per entrare davvero in un
testo) fra scrittore e traduttore per confrontarsi non solo sui
risultati della traduzione in questione o sull’accoglienza della stessa
da parte dei lettori, ma anche sul contesto socio-economico, politico e
culturale in cui l’opera era nata. Confronto che poi si è allargato
anche ad alcuni editori e intellettuali dell’Italia della prima metà del
Novecento (come Arnoldo e Alberto Mondadori, Enzo Paci, Emilio Cecchi e
Ranuccio Bianchi Bandinelli). Perché se è vero che ogni
scrittore ha come aspirazione veder pubblicata una sua opera, ciò non
deve avvenire a tutti i costi e con ogni mezzo. Leggendo le
lettere di Mann scopriamo che spesso è la “sua” traduttrice a insistere
per la pubblicazione di un’opera in Italia, laddove era l’autore a
ritenerla non adatta o non facilmente comprensibile per il lettore
perché nata in un contesto socio-politico (la Germania degli anni Trenta
e Quaranta) diverso da quello italico. Perché prioritario per Thomas Mann era la massima fruizione del suo pensiero e non della sua immagine,
della sua vita privata o del numero di autografi che avrebbe potuto
firmare se fosse venuto a presentare il suo libro in Italia.
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