domenica 10 febbraio 2019

EPPUR... BALORDO






La ricchezza del mio cuore mi spaventa, io uomo povero e di semplici principi, io piccolo essere fra le vostre grandi mani. Scherzo della mia sfortuna con risate isteriche, assaporo sudice ferite con bicchieri colmi di vino; ed ascolto musiche leggere, di poeti erranti.
Eppure il mio cuore è colmo d’amore, eppure un tempo sono stato felice: chiamato Gastone, saggio, pagliaccio, nomade, merda di uomo.
Eppure ora vago in strade abbandonate, soffermandomi qua e là sotto qualche ponte, ad ascoltare violinisti emarginati da una società sorda, a guardare nello specchio del fiume il mio cupo volto, segnato da qualche anno in più della mia età. Passo dopo passo trascino un corpo stanco di camminare, stanco di lasciarsi andare; mi siedo sul bordo del fiume avvolto dal cemento, avvolto da una città che detesto: cupa e grigia come ora è il mio animo. Un sorso di vino ridà colore al cuore che allenta la morsa e mi fa stare male. D’amore soffro, di vergogna mi ricopro, nell’aver abbindolato le notti con il mio seme, nell’aver imprecato il tuo nome in chiese consacrate; ed ora eccomi, non ancora penitente a soffrire la fame di un’anima mal disposta. Mi vedo quando giovane camminavo sicuro, fiero, pronto ad affrontare la vita ed uscirne vincitore. Mi lasciavo abbindolare da tutto. Una mosca fastidiosa che assillante, continua impetuosa a farmi imprecare, questa rabbia primitiva contro un buon Dio. E camminavo, camminavo mai stanco, mai abbattuto, con quella mia speranza così positiva da essere diventata un marchio di me stesso. Venticinque anni, entro nella casa dove però più non alloggio, perchè mia moglie, troppo ha sofferto a causa mia ed ora preferisce uno schiaffo a un bacio, preferisce l’insulto alla carezza. Ed io “merda di uomo” rimango in silenzio a ricevere il suo pianto, la sua rinuncia, ribattendo qua e là con un sorriso che suscita ancora più rabbia. Emarginato da un luogo sconosciuto, da un luogo in cui per due anni ho vissuto e tornato in patria, a camminare, camminare senza stancarsi, un po’ abbattuto, lievemente sconfitto, sicuramente segnato, ma non cambiato. Titubante sostengo lo sguardo di nuovi occhi, più facile si rivela posarsi su ventri già conosciuti, su labbra già assaporate e mai dimenticate. Da continui sbagli mi lascio segnare, in vecchi amori cerco sostegno, di parole confuse sono stanco.

Solo voglio ripartire, della solitudine mi voglio innamorare, di tristezza già ne sono colmo. Ed eccomi qui sul bordo del un fiume di una grande città, con una lacrima che mi scende dal viso e non trova riposo prima di finire a terra. La giovinezza è trascorsa intensa e veloce come un mio orgasmo, la vecchiaia mi macera instancabile, lenta si pone come un’impossibile erezione, voluta dalla mente ma rinnegata dal corpo. Una giovinezza passata alla ricerca delle chiavi giuste, sempre di fronte a grandi portoni chiusi, incapace ad aprirli. Cercavo di scavalcarli ma nella maggiore parte dei casi, rinunciatario, mi sedevo fianco alla porta a dormire, attendendo il rientro della padrona, elemosinando una notte d’amore. Seduto qui fianco al fiume, accarezzo dentro alla tasca dei pantaloni, il mazzo di chiavi, consistente, ben custodito, ma ora di queste chiavi non so che farci, visto che non ricordo le strade per quelle porte che un tempo mi accoglievano da mendicante. Ora che potrei essere il possibile padrone, sono un vecchio senza memoria. Ormai è calata la notte, chiuso il sipario, sigillato lo scrigno che custodisce i nostri segreti, ed eccomi qui a violare promesse, maledire il tempo e sussurrarti parole d’amore. Inaspettato mi bussa il pensiero che ho di te, soppresso ma vivo. Ho decantato la tua bellezza, il tuo animo, eppur non mi sento ancora stanco di esporti al mio pubblico. Scriverei poesie intitolate col tuo nome, canterei canzoni che parlano del nostro amore, berrei vino pigiato dai tuoi piedi e bacerei il tuo corpo, nulla escluso con le mie labbra, assaporando la tua essenza, imprimendo il tuo odore nel mio olfatto. Ormai ti ho persa, ormai ti ho lasciata scivolare fra mani sudate, il bacio troppo asciutto, la parola troppo aspra, ma il sentimento reale e concreto come ciò che siamo stati. Una famiglia. Due amanti coerenti nel non atto d’amore, incapaci di penetrare l’uno dentro l’altro, per motivi che forse capirò. Capirai. Distolgo un attimo lo sguardo dalla Luna, dal tuo ricordo, io vecchio uomo emarginato dalla società, ed imprigionato in questo manicomio devoto all’atto di impazzire. Ora appoggiato al bordo di questa vita, attendo pazientemente la morte, simpatica visione di una paura. Ho avuto paura di nascere, pensando di star morendo, paura di crescere acquisendo sempre più la malvagità dell’uomo, la paura di amare ed essere respinto, la paura di amare ed essere accettato, la paura di bere un ultimo bicchiere e sboccare l’anima su di un asfalto grigio, la paura di fare l’amore e sborrare precocemente, la paura di avere troppe paure. Ero giovane ed impaziente, volevo tutto nel minor tempo possibile. Ad ogni fiocco di neve mi si raggela il cuore, ad ogni foglia caduta si aggiunge una ruga al mio volto, ad ogni nuovo fiore una lacrima perduta. Eppur ti ho avuta, lasciata, eppur ti cerco e so dove sei. Eppur ....balordo.

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